Nella quinta delle sue “Lezioni americane”, Italo Calvino tratta il tema della Molteplicità. Conclude con queste parole: “Sono giunto al termine di questa mia apologia del romanzo come grande rete”.
A chi naviga in Internet – una navigazione lunga trent’anni ad oggi – il concetto di Rete è familiare. Paragonarlo alla struttura del romanzo è tuttora una sfida.
Un bellissimo saggio di Calvino (in “Una pietra sopra”) s’intitolava proprio “La sfida al labirinto”. E il labirinto entra nei discorsi della lezione citata, quando inevitabilmente si incontra Borges e quello che Calvino definisce “iper-romanzo” (e parla pure dei suoi “Il castello dei destini incrociati” e “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, e così fa dell’iper-saggistica!); e non a caso la lezione inizia citando il labirintico Gadda (per lui usa il termine di gliommero, gomitolo) e non può dimenticare il “polifonico” Dostoevskij di Bachtin.
Che la rete possa essere un modello per descrivere la struttura di un romanzo (o iper-romanzo), a noi oggi potrebbe anche sembrare persino banale.
Siamo abituati agli ipertesti, a saltare da un passo all’altro della biblioteca di Babele interattiva, abbiamo dimenticato gli scaffali polverosi a vantaggio di una continuità che si gioca tra i polpastrelli e la tastiera, umanisti telematici del domani, grandi crani e gambe secche come nella più scadente delle fantasy story. Pure c’è qualcosa che risulta ancora rivoluzionario, nelle semplici parole di Calvino. Ed è con candore che, involontariamente, mette un granello di sabbia nella grande macchina Internet.
Perché certo Calvino nel 1985 non poteva sapere cosa sarebbe stata oggi una immensa rete di computers e linee telefoniche che rendono il globo terrestre un bel gomitolone! Ma ci ha insegnato, qui come in altro modo nei suoi testi, che la letteratura può anche precedere e superare la scienza. Come? Vediamo. Qualcuno avrà sentito certamente parlare di intertestualità, del rapporto che un testo stabilisce (o meglio, che un lettore può stabilire) con un altro testo che in qualche modo lo precede e lo produce. La filologia classica si occupa della “ricerca delle fonti”, dei testi che hanno contribuito a fornire il materiale da costruzione per un nuovo testo. Così per esempio si è setacciata la Divina Commedia alla ricerca dei calchi, delle rapine benevole, nei confronti dell’Eneide, della Bibbia, dei testi dei Padri della Chiesa e di quant’altri. Il primo verso della Commedia “Nel mezzo del cammin di nostra vita” deriverebbe in qualche modo da un passo del Salmo di Isaia (cap. 38, v. 10), e così via. Ma l’intertestualità è un termine nato nella Francia degli anni ’60; la Kristeva, che l’ha tenuto a battesimo, era vicina agli ambienti del nouveau roman, della nuova oggettività. Aveva nelle orecchie i discorsi sulla morte dell’autore, e leggeva Bachtin a suo modo (ma ha comunque il pregio di averlo fatto conoscere in Occidente). Pertanto la letteratura, vista solo come processo della scrittura, sembrava essere autonoma da chi la faceva. Menard poteva riscrivere il Don Chisciotte liberamente. Ma sarebbe stato comunque un’altra cosa. Perché cambia il contesto. Ed è questo a fare d’un testo un individuo specifico, correlato (ancora l’idea di rete) con altri. E questi altri possono anche essere testi venuti dopo. Se leggessi adesso “Il Milione”, non potrei fare a meno di pensare al Marco Polo delle “Città invisibili”. Perché sono io lettore a creare, in quel processo straordinariamente creativo che è la lettura, la rete di relazioni di un certo testo. E come lettore intertestuale si nasce dal secondo libro che si legge, qua stabiliscono somiglianze e differenze, relazioni insomma. E così via, ingarbugliando sempre di più la matassa di fili tesi tra testi diversi. C’è un singolo passo straordinariamente significativo per questo discorso, e anche universalmente noto. E’ l’incipit dell’ “Orlando furioso”: “Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto”. Che nell’edizione del 1516 suonava più prosaicamente: “Di donne e cavallier li antiqui amori/ le cortesie, l’audaci imprese io canto”.
La prima “fonte” che la filologia noterebbe, è l’incipit dell’Eneide (“Arma virumque cano”). Ma l’Eneide è anche “libro mastro” di Dante; e nella sua Commedia incontriamo questo passo (Purg. XIV, vv.109-110): “Le donne e’ cavalier, li affanni e li agi,/ che ne ‘nvoglia amore e cortesia”. E si capisce che certa musicalità, l’Ariosto l’ha attinta da qui. Basti fare attenzione al verbo lasciato alla fine perché ne restasse accentata l’importanza (“…io canto”), all’equilibrio di suoni e significati (il famoso chiasmo e gli incroci fra termini opposti e vicini), eccetera. Poi c’è tutta una tradizione nella quale egli vuole rientrare (magistralmente fallendo, appartenendo ad una generazione successiva), che è quella del romanzo del ciclo bretone, dove cavalieri e amori dominano la scena. E si potrebbe tirar fuori l’altrimenti sconosciuto Eustache Deschamps (1346-1406) e le sue “Balades de moralitez”, dove troviamo “Armes, Amours, Dames, Chevaliers”. Oppure l’Orlando Innamorato, quel Boiardo di cui si fa esplicito continuatore (Riffaterre parlerebbe di intertestualità “obbligatoria”) [libro III, V, vv.1-2]…
Ora, questo discorso sull’intertestualità dell’incipit dell’Orlando Furioso, è possibile renderlo più concreto, visibile, geometrico?
Si potrebbe pensare ad un’edizione ipertestuale, della Divina Commedia,
a una sorta di www.divina.com?
La risposta è, a parer mio, negativa. Ed il motivo è dato dalla inarrivabilità della letteratura da parte dei mezzi di Internet. Perché? Chi ha qualche pratica di HTML, o pensa solo ai “link” nelle pagine web, saprà che ognuno di essi può rimandare ad uno (e uno solo) su un’altra pagina, il quale può rimandare ad un altro (un SOLO altro) e così via. Ma a noi non basterebbe, che per ogni verso avremmo bisogno di una serie di “link”, di fili che partissero alla volta di percorsi labirintici verso molti altri testi. Ecco quindi il limite della Rete, che ha un numero finito e previsto di interrelazioni. Una fugace considerazione che nasce da una visione di un film, senza infamia e senza lode, a titolo “Rosso d’autunno”: un bambino autistico che non riesce a ricordare un delitto vissuto da testimone-protagonista perché incapace di dialogo, ma soprattutto incapace al recupero di memoria per i tanti segmenti che caratterizzano la nostra attitudine a pensare e il nostro cervello di uomini. Mi spiego: al nostro ricordo basta un profumo, un suono, il colore di un abito per recuperare il filo perduto di un privato labirinto, all’autistico no, deve ricollegare secondo una precisa scansione numerica, il ricordo B viene dopo di A e prima di C, ma mai può comprendere o ipotizzare o sottendere gli altri correlati, insomma ipertestualizza ma non intertestualizza. Dunque il computer e Internet sono sistemi autistici e come gli autistici capaci di incredibili espressioni monotematiche e unicomprensive. Per questo, poi, ci siamo noi piccoli esseri umani incapaci, a meno di patologie psichiatriche, di correre lungo un unico filo di pensiero, che colleghiamo tutto, ricostruiamo, inventiamo. Uau! James Joyce quando faceva chiacchierare la sua Molly aveva capito tutto: che ci faceva un computer di un monologo di quel genere? Ipertestualizzava?
Internet é morto, evviva Internet! Sta a noi, lettori-navigatori (pensiamo al topos letterario del racconto, o della lettura, come viaggio), stabilire ulteriori collegamenti, questi altri anche con quello che da dentro la Rete vien fatto di chiamare “il mondo reale”.
Sta alla nostra intelligenza cioè dare un con-testo all’ipertesto del Web.
Come sta a noi tirare un filo immaginario tra le cose che leggiamo, sempre.
Per esempio tra le ultime parole di Calvino e un grande personaggio della letteratura di questo secolo postmoderno (che egli non poteva conoscere ma che, in qualche modo, “previde”, come la Rete): Fernando Pessoa.
Infatti si potrebbero ascrivere a lui queste parole di Calvino, nel finale dell’ultima lezione della sua vita:
“Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”.
Maria Laura Platania