La notizia è che si vorrebbe eliminare il minimo garantito per gli autori in caso di rappresentazione delle loro opere in sale inferiori ai 100 posti, un discrimine che ha fatto insorgere – giustamente da un punto di vista ideale – le organizzazioni sindacali e allarmare la stessa Siae che pure da quei minimi trae i suoi profitti di intermediazione.
Gli amici e colleghi del CENDIC, il Centro di drammaturgia contemporanea cui mi onoro di far parte, ha sposato la sacrosanta causa ideale della difesa del diritto d’autore. Ciò rappresenta del resto un compito istituzionale: per questo la presidente Maria Letizia Compatangelo si è impegnata nella battaglia che, sul piano ripeto puramente ideologico, trova gli autori italiani assolutamente compatti.
Va da sé, tuttavia, che le giuste battaglie ideali spesso rischino di mietere le cosiddette <vittime collaterali>, tanto che ad un certo punto ci si potrebbe cominciare a chiedere: ne vale la pena? La cura non sarà forse peggio del male? Ed ecco allora che dubbi e crepe aprono qualche falla nella Santa alleanza della tutela – ideale ma poco pratica – del diritto.
Guai, si è infatti sentito ribattere alla proposta di esenzione, a toccare il diritto d’autore, soprattutto il cosiddetto minimo garantito, quell’ottantina di Euro al lordo delle imposte che – ripeto, in teoria – dovrebbe – e sottolineo dovrebbe – garantire all’Autore il riconoscimento della sua professionalità e il rispetto dovuto alla sua opera.
L’allarme sarebbe senz’altro giustificato in un sistema teatrale “sano”, collaudato e ben oliato. Prendiamo, ad esempio, il funzionamento (non perfetto, cigolante quanto si vuole ma che faceva girare la ruota del mulino) del teatro italiano fino a una ventina di anni fa: c’erano piccole e medie compagnie finanziate, chi più chi meno, dal Ministero; c’erano piccoli e medi produttori che riuscivano anche tramite le piazze di una dozzina di festivals nazionali a far partire gli spettacoli; c’erano teatri più o meno off che offrivano condizioni ottimali (il famoso 70/30) di coproduzione capaci di garantire qualche respiro economico alla compagnia ospitata.
Oggi invece ci ritroviamo di fronte ad un sistema totalmente impazzito: siamo saltati dalla padella dei finanziamenti a pioggia alla brace delle cancellazioni, ritardi e contraddizioni ministeriali. Ciò ha generato un’enorme difficoltà, quando non impossibilità di accedere ai finanziamenti, soprattutto nei luoghi di scarso sbigliettamento – sia solo per motivi logistici di numero di sedie. A ciò si è aggiunta scomparsa della figura del “produttore”; la trasformazione dei teatri off, con rare eccezioni che comunque immancabilmente nascondono con arzigogoli contrattuali la sostanza del fitto serale, in “camere in affitto” dove la programmazione viene selezionata e seguita quel tanto che si può e che impone la coscienza professionale, per il resto decide il bisogno delle sale di assicurarsi il noleggio delle attrezzature e i compensi vari per stare aperti. Per non parlare poi di altri problemi, come ad esempio la scomparsa di una critica nazionale che influisca su un pubblico anch’esso fluttuante, indeciso e difficilmente suggestionabile con le armi spuntate di uffici stampa che fanno quello che possono in una situazione oggettivamente difficilissima.
In questo sistema impazzito si aggira, come il Ciampa di Pirandello, l’Autore Italiano Contemporaneo che sta giustamente tanto a cuore al CENDIC. Naturalmente ci sono casi fortunati – pochi, ma significativi per la verità – di autori che vengono rappresentati con continuatività e buoni risultati. Tanto di cappello, ma questi casi isolati riguardano i teatri con oltre 100 posti – come per esempio succede ai testi di Gianni Clementi. Altri autori di indubbio merito e successo, per esempio Angelo Longoni, hanno le loro compagnie: se e quando operanoin piccoli teatri, pur costretti (sono certo controvoglia) ad autopagarsi i diritti d’autore rimettendoci Iva, oneri sociali e fiscali, possono comunque avvalersi di un sistema amministrativo in grado di far rientrare produttivamente il costo “obbligatorio” dei diritti.
Tuttavia la stragrande maggioranza degli autori si trova nella difficile condizione di autoprodursi in piccoli spazi e con piccole produzioni (l’attributo “piccolo” non è riferito ad una scala di valori qualitativa, al contrario spesso la qualità è inversamente proporzionale al costo degli spettacoli – ma questo è un altro discorso), oppure di essere costretti, se vogliono andare in scena, a pagarsi da soli i diritti – somme che gli ritornano poi decurtati da Siae e tasse al 50% – per permettere alle compagnie ormai rigettate dal sistema dei finanziamenti ed esposte ai costi di fitto teatro, oneri, paghe, eccetera, di tentare l’impresa di metterli in scena.
In questo caso allora il diritto d’autore, il cui “minimo” verrebbe imposto dall’alto smette di essere un diritto, diventa infatti un “dovere” d’autore. Il quale, cornuto e mazziato, oltre alle difficoltà e alle barriere artistiche che incontra nella promozione del suo lavoro, deve anche subire oneri e balzelli, pagandoci pure sopra le tasse, per soldi che gli tornano dimezzati dopo che sono partiti dalle sue stesse tasche! Un circolo vizioso inconcepibile e inammissibile.
La domanda è dunque: come garantire il diritto d’autore per gli spazi off, senza che diventi per l’Autore stesso un onere aggiuntivo, una sorta di obbligo fiscale? Ebbene la legge sul diritto d’autore (la legge 633) ci viene in soccorso in quanto riserva all’Autore o al de cujus (gli Eredi) la libertà della gestione economica della propria opera: la Siae funge solo da intermediario in caso di iscrizione, per altro assolutamente volontaria. Ma anche se iscritto alla Siae giuridicamente è sempre l’Autore (almeno dovrebbe essere) a decidere le condizioni di concessione delle proprie opere – fatte salve le quote amministrative spettanti all’Intermediario in caso di iscrizione.
Ammettendo dunque la giustezza della battaglia ideale e morale del CENDIC e delle altre associazioni a difesa del diritto d’autore va sottolineato che il primo diritto “morale” che andrebbe affermatoè quello della libertà dell’autore di trattare ed eventualmente concedere la sua opera a condizioni che ritiene ottimali per lui nelle condizioni in cui si trova ad operare.
Il paradosso è che il principio della libertà dell’autore di gestirsi economicamente è stata sancita da una legge “fascista” del 1933 (poi novellata, ma sostanzialmente confermata): questa libertà non andrebbe toccata, ma semmai inserita in un processo legislativo che faccia dell’Autore italiano il centro e lo scopo, come avviene nel cinema, del finanziamento pubblico.
Perché infatti non esiste un minimo compenso garantito per lo “sceneggiatore” del cinema italiano, tanto che la Siae ha dovuto escogitare il sistema di reintegro dell’Equo Compenso costituito sulla base di un fondo comune finanziato dalle produzioni? La risposta è semplice: perché se il film non è di autore italiano contemporaneo, il Ministero non concede fondi. Cosa che dovrebbe avvenire anche nel teatro: niente autore contemporaneo italiano, niente soldi pubblici. Questa sarebbe l’unica garanzia da rivendicare.
Enrico Bernard