Teatro La Fenice, Venezia, in scena dal 1 al 14 luglio 2016
Non di rado compositori stranieri del Novecento hanno allungato la mano sul patrimonio letterario italiano per la loro produzione. A Bohuslav Martinů si deve Mirandolina, lavoro in bilico tra opéra-comique, Singspiel ed operetta desunto dalla Locandiera di Goldoni. Tale interesse contribuisce alla curiosa fortuna della commedia, oggetto di trasposizioni musicali e non dal XVIII al XX secolo tra cui vanno citate quelle di Salieri (1773) e di Giovanni Simone Mayr (1800). Creata a cavallo del 1953 e 1954, ma allestita postuma nel 1959 al Teatro Nazionale di Praga, Mirandolina soddisfa scarsamente l’ascoltatore più esigente. Seppur di base armonica tonale, la musica giunge all’orecchio senza spiccare il volo verso soluzioni degne d’attenzione, intrisa com’è di pulsazioni e nevrosi. Omaggio a Rossini, con lievi tinte pucciniane, se non accozzaglia di suggestioni settecentesche frammiste a jazz, vi rimane impressa la matrice ceca, non in una delle migliori declinazioni. Lapalissiani i limiti del testo che si perde tra inserzioni di parlato, sviste e ripetizioni superflue. Martinů stesso volle cimentarsi nella stesura del libretto, apportando tagli vistosi e aggiunte ex novo sull’originale, ma la scarsa dimestichezza con l’italiano gli impose l’aiuto di Antonio Aniante (alias Antonino Rapisarda) che non riuscì comunque a smussarne l’imbarazzante pochezza ontologica.
Compreso quindi che Mirandolina non è La locandiera, che a Martinů minime interessa la morale e che i personaggi sono ridimensionati per esaltare la tempra autoritaria della protagonista, l’occhio fa i conti con la messa in scena. Gianmaria Aliverta, che ricordo per l’enigmatico dittico Zápisník zmizelého–La voix humaine del 2015 al Malibran, elegge la finzione a perno drammaturgico. Tutti hanno un motivo per sembrare, invano, ciò che non sono. Gli avventori, comiche incluse, sono buzzurri degni del peggior cine-panettone. Forlimpopoli, dall’imperdonabile accento milanese, e il greve romanaccio Albafiorita palesano banali antitesi geografiche, bilanciate per fortuna dallo spessore morale di Ripafratta. Assecondando il gioco delle apparenze, la vicenda si ammanta di nuances birichine e latenti “vizietti”. In generale, la chiave di lettura cafonal non mi convince perché a teatro vorrei evadere dalla realtà e non ritrovarmela davanti. Della locanda, o meglio dell’hotel, Aliverta mostra il centro benessere, la stanza del cavaliere dotata di idromassaggio e la lavanderia. Ambienti questi realizzati da Massimo Checchetto che, come nel suddetto dittico e nell’Amico Fritz, propone l’ennesima struttura lignea, qui girevole, giocata su freddi contrasti tra bianco e noce chiaro. I costumi di Carlos Tieppo si perdono nell’ordinario quanto le luci di Fabio Barettin.
John Axelrod, con piglio sicuro nelle scelte dinamiche e ritmiche, guida un’orchestra puntuale che si dimostra nel tempo sempre più a suo agio col contemporaneo. Va riconosciuta al direttore americano la maestria di restituire in buca, di pari passo col palcoscenico, la cifra isterica della partitura, oltre a una brillantezza peculiare.
La Mirandolina mignonne di Silvia Frigato, astuta, vispa, tutta sguardi e malia, non ha voce grande, ma il fraseggio è variegato e il timbro limpido. Personalmente la prediligo nel repertorio barocco, dove dimostra altre eccelse doti. Omar Montanari è un ottimo Ripafratta, dagli accenti sempre corretti, ricco nei colori, perfetto nei volumi e disinvolto sulla scena. Non avevo dubbi sul risultato superlativo di uno dei migliori tenori del panorama italiano, Leonardo Cortellazzi, Fabrizio premuroso dalla linea di canto omogenea e facile all’acuto. Reclusi al ruolo di macchiette di buon livello Albafiorita (Marcello Nardis), Forlimpopoli (Bruno Taddia), Ortensia (Giulia Dalla Peruta), Deianira (Laura Verrecchia) e il sudato servitore (Cristian Collia).
Sala non affollatissima, com’è prevedibile quando si propone il contemporaneo. Applausi per tutti alla prima del 1 luglio.
Luca Benvenuti