Fabrizio Sinisi e Fabio Massimo Franceschelli sono due autori che mi danno molto da pensare. Anzi, mi correggo subito: mi fanno pensare molto. Ed è questo già grande merito d’entrambi, non tanto perché attivino con le loro opere la mia corteccia cerebrale, poco interessa; ma voglio dire, più in senso lato, che il merito dei due scrittori – scusate se è poco di questi tempi magari di materia grigia collettiva! – che le loro opere nascono da una riflessionene critica sulla realtà e sull’arte che mi ricorda grandi autori d’altri tempi: Zavattini, Calvino, Moravia, Bernari, Fellini, Pasolini… con qualche distinguo e qualche però.
Cominciamo con Sinisi. In una bella intervista con Andrea Porcheddu pubblicata ne “Glistatigenerali” il trentenne Drammaturg-autore-regista (alla tedesca la prima parola come si legge nel testo) richiamandosi proprio a Pasolini (e a Eduardo) getta le basi ideologico-linguistiche del suo teatro. O il teatro – apprendiamo – rappresenta la realtà ed è una forma di comunicazione naturalistica, ed allora deve usare il dialetto poiché la realtà linguistica è dialettale, oppure è una forma fittizia ed elitaria e siamo all’italiano: una lingua non colloquiale come l’inglese quindi poco duttile ad uso comunicativo, ma ottima per la formulazione di concetti – ed aggiungo io arzigoli, trappole linguistiche, giroparole per azzeccagarbugli. Ne ho parlato in un saggio (https://www.academia.edu/12218225/Dante_e_le_due_letterature_quella_dei_ricchi_e_quella_dei_poveri) al quale rinvio per non annoiare. Anche perché qui la questione è un’altra e per spiegarla meglio uso le parole di Sinisi:
«cercare di parlare il “quotidiano”, senza parlare i dialetti, è una operazione grottesca. Tanto che, quando in Italia si è fatto grande teatro naturalistico – pensiamo anche a Eduardo De Filippo – abbiamo fatto ricorso giustamente ai dialetti. Diverso invece quanto accade in Inghilterra o Francia. L’altra tendenza, che mi interessa di più, si basa invece sul riconoscere il carattere letterario, melodico, musicale, della nostra lingua. Una lingua adatta ad esprimere più i concetti che non la psicologia, più i suoni che non il non-detto. Qual è la lingua, il linguaggio, in cui l’italia è grande? La poesia, il linguaggio d’Opera. Tutto il contrario del naturalismo… Preferisco, dunque, lavorare partendo da questa coscienza. E amo quel teatro che cerca di estremizzare il fatto che la lingua non si presta a un uso naturale»
In queste frasi leggo tre cose: un principio guida efficace ma de ja vu (il superamento del naturalismo); una contraddizione (l’italiano non è contemporaneamente lingua poetica e buona per esprimere concetti, in quest’ultimo caso semmai lo è il tedesco); una confusione (tra linguaggio della poesia e la lingua – terribile – dell’opera lirica).
Per quanto riguarda il «superamento del naturalismo» ci hanno pensato alcuni autori ad inizio secolo, per esempio Verga: il saggio di Hermann Bahr del 1891 si intitola proprio così Il superamento del naturalismo (Adelphi). Le opere successive di Bahr sono poi talmente eloquenti che basta citare il titolo: Studi per la critica del moderno (1894) e Dialogo sul tragico (1904).
A farmi tremare è piuttosto l’opzione per la lingua dell’opera lirica. Ora, dal momento che Verga oltre un secolo fa scrisse pure stupendi libretti d’opera (sono raccolti da Garzanti ngli Scritti teatrali) riuscendo ad adattare dialetto ed italiano, linguaggio poetico e lingua comprensibile, ho l’impressione che le buone intenzioni di Sinisi riportino le lancette della ricerca teatrale indietro e siano già state superate dallo stesso superamento non solo del naturalismo ma anche del verismo stesso (da parte del neorealismo, che non è documentarismo come insegna Italo Calvino).
Mi spaventa anche del discorso di Sinisi la confusione tra la lingua della poesia e la lingua dell’opera (Sinisi non si riferiva ovviamente a Verga autore di libretti ma probabilmente a Boito e alla retorica ottocentesca verdiana). Va da sé che il gusto per l’opera è soggettivo e apprezzabilissimo, ma ridurre la poesia moderna a quel linguaggio antiquato, retorico e ridondante è un’operazione che farebbe incrinare perfino l’architettura dell’estetica di Croce.
A ciascuno il suo, direbbe Sciascia. Ed io aggiungo un bel de gustibus. Se la borghesia italiana, ossia la classe morta, aspira ad un ritorno della retorica, ad una fuga dal teatro vivo per un ritorno a polverosi stracci buoni per addobbare qualche ugola d’oro, si accomodi pure. Ma poi Sinisi è davvero sicuro che le cose stiano proprio così? Nel momento in cui Pavarotti sfonda i record d’incassi e vendite con Te vojo bene assai cioé con quello stupendo ibrido di dialetto, lingua d’opera, poesia, beh mi sa che il discorso del giovane Dramaturg zoppichi come un povero vecchietto nato nell’altro secolo e che crede di continuare a vivere ai tempi che furono.
Archiviato il discorso di Sinisi – che ho qui spacciato per un giovane nato vecchio, ma che crescendo avrà modo, me lo auguro per lui, di ringiovanire come Faust – passo ad un altro semigiovane, autore collaudato ma anche romanziere al debutto con Italia (Premio Calvino 2014). Ho letto molte recensioni prima ancora di leggere il romanzo e devo dire che elegi e considerazioni positive trovano riscontro.
Non sono d’accordo coi critici che insistono con un aggettivo che ritengo ripugnante: “bello”. In letteratura non esiste il “bello”, esiste solo l’utile. E se devo rispondere alla domanda, Italia è un romanzo utile, non posso che dire che lo è. Ampiamente e meritatamente. Proprio ieri ad esempio in una grande libreria ho trovato copie del romanzo di Franceschelli insieme ad una quantità di altri romanzi e romanzetti, premi di qua e premi di là, per la maggior parte robaccia che non vale la pena di traslocare, semmai sono utili per accendere il caminetto. Tra i pochi libri “utili” non potrei però non inserire Italia, perché fin dal titolo è un’opera che fa capire molto della situazione attuale, un libro che “ci” rappresenta così come siamo noi italiani: pochi pregi e moltissimi difetti.
E qui mi torna utile il discorso sulla lingua di Sinisi, un discorso che Franceschelli ribalta completamente: è possibile superare il naturalismo non attraverso una scelta linguistica retorica (il linguaggio lirico), ma attraverso il parlato quotidiano dell’italiano ora contorto, ora dialettale, ora burocratico, ora omologato al linguaggio televisivo, epperò moderno.
Ovviamente Italia presenta anche alcuni aspetti che non mi convincono – ma non ne voglio parlare qui. Posso dire solo che se l’Autore avesse aggiunto al titolo una virgola ed una breve frase Italia, appunti per un romanzo non avrei sentito il bisogno di consigliargli di usare le forbici, eliminare qualche materiale, passare insomma il libro al setaccio. Perché se si fosse trattato di una sorta di raccolta di “materiali per un romanzo” la struttura troppo lunga se ne sarebbe avvantaggiata e forse si sarebbe proposta come soluzione ancor più innovativa e sperimentale. Strano che Franceschelli non ci abbia pensato, dal momento che uno dei suoi interessanti lavori teatrali si intitola proprio così: Appunti per un teatro politico.
E romanzo politico è senz’altro Italia: un libro “utile” (non “bello”) che resisterà comunque al tempo con pochi accorgimenti proprio per l’uso di quella lingua alla quale invece Sinisi sembra preferire il verseggiar da cicisbeo – come disse Goldoni al rivale Gozzi.
Enrico Bernard