Trieste, Teatro Lirico Giuseppe, 21 e 22 ottobre 2016
Opera assente a Trieste da decenni, la Missa Solemnis di Ludwig van Beethoven, diretta dal M° Gianluigi Gelmetti con gesti sobri e misurati, ha concluso la Stagione Sinfonica al Teatro Verdi di Trieste. Ben equilibrate fra loro, le voci dei solisti Hye-myung Kang (soprano), Marina Comparato (mezzosoprano), Giovanni Sebastiano Sala (tenore) e Giorgio Giuseppini (basso) hanno dato buona prova di sé, assieme all’Orchestra e al Coro (preparato dal M° Fulvio Fogliazza, al suo ultimo impegno con la Fondazione triestina), cui si è aggiunto per l’occasione il Coro delle Filarmonica Slovena di Lubiana.
Nel luglio 1819 Beethoven scriveva all’Arciduca Rodolfo, cui la Missa avrebbe dovuto essere dedicata in occasione del suo insediamento come vescovo della città boema di Olmütz, se fosse stata conclusa in tempo: “ Gli antichi servono moltissimo perché hanno raggiunto un vero livello artistico… ma la libertà e il progresso dell’arte sono il nostro vero obiettivo finale. Non possiamo negare che, sebbene noi moderni non siamo così progrediti in fatto di saggezza quanto i nostri precursori, la raffinatezza della nostra cultura ha comunque apportato qualcosa di valido.”
Creazione di grandissima complessità, in essa elementi più propriamente legati alla grande tradizione della musica sacra a partire da Palestrina si mescolano con una scrittura sinfonica importante fin dalle prime battute del Kyrie. Significativa, da questo punto di vista, l’estrema disponibilità da parte di Beethoven nel vederla eseguita in sale da concerto fin dalla première dell’aprile 1824 a Pietroburgo, presentata come Oratorio, o nell’accettarne l’estrapolazione di Kyrie, Credo ed Agnus Dei, rinominati “Tre grandi Inni per coro e soli” a Vienna un mese dopo, per consentire che della musica sacra venisse inserita in quel programma cui fece parte anche la prima esecuzione assoluta della Nona Sinfonia.
La si può avvicinare agli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina non soltanto per la sua grandiosità, ma anche e soprattutto come espressione di una spiritualità più che profonda, risultato di una magica comunione fra il sentire dell’Artista con ciò che di metafisico è insito in ogni forma espressiva, figurativa da un lato, musicale dall’altro, in un legame strettissimo fra l’umano e il divino, culmine di un processo evolutivo individuale risultato di grandissima fatica per entrambi. Assume così molto senso quel che Beethoven scrisse ad intitolazione del “Dona nobis pacem” presente nella seconda parte dell’Agnus Dei: “preghiera per la pace esteriore ed interiore”, e preceduto dal Miserere, le cui melodie sembrano quasi provenire da altre tradizioni.
Episodio dolcissimo, il Sanctus è seguito dall’ Osanna e dal Benedictus annunciato a sua volta dall’intervento del violino solo che risulta essere di una bellezza infinita (violino solista Stefano Furini); su di esso poggiano le voci dei solisti e ad esso si ritorna sempre come per ritrovare pace a conclusione di ogni momento in cui la drammaticità emerge. Sembra di ricevere in dono una stella polare cui far riferimento nei momenti in cui ci si perda, per eccessiva disperazione o per esagerata esaltazione: un punto fermo, dolce e trasparente.
Definita dall’Autore “la mia opera più riuscita” e la presenza in letteratura di opinioni molto divergenti a proposito dell’intenzionalità di Beethoven verso di essa, riconosciuta di volta in volta vicina alla Chiesa Cattolica Austro-Ungarica, o ad una visione aconfessionale o anche laica, porta a pensare quanto questo immenso capolavoro sia in realtà refrattario a qualsiasi etichetta, esempio di spiritualità pura, intima, umana, assoluta e, di conseguenza, universale.
Paola Pini