Venezia, Teatro Goldoni, dal 17 al 20 novembre 2016
La locandiera (1752) non è solo una commedia, ma anche l’acuta analisi della società veneziana colta in un preciso frangente storico. Già dal 1748 infatti contrasti sempre più accesi si fecero strada tra le classi. Nell’aristocrazia stessa, tra patrizi di Quarantia e barnabotti. Tra la nobiltà senatoriale, ancora al governo con posizioni conservatrici ed economicamente potente, e la nascente borghesia. La bella Mirandolina non è quindi solum “donna di spirito”, ma anima stessa di questo nuovo ceto che per conservare la propria libertà si ribella al patriziato e alle sue seduzioni, adottando “l’intelligenza come strumento di affermazione sociale” (G. Davico Bonino). Goldoni adatta la lingua al contesto, celebrando la supremazia del denaro. La roba, gli oggetti-simbolo dominano gli interessi altrui: le lenzuola di rensa, le tovaglie di Fiandra, i diamanti, il fazzoletto, la boccetta d’oro, gli zecchini e i paoli, l’intingoletto, il Borgogna…appartengono ad “un linguaggio perfetto applicato alla merce e non al cuore”, citando Le Moli. Cuore che soccombe nel gioco della finzione di cui tutti conoscono le regole, ma non bene quanto Mirandolina. Il (finto) misogino Ripafratta cede alle (finte) lusinghe dell’albergatrice, in un conflitto tra razionale e irrazionale che alla fine rientra nei ranghi della convenzione gerarchica.
Questo il pensiero che alberga nella Locandiera proposta dal Teatro Due di Parma e dal suo regista stabile Walter Le Moli, sapientemente ripulita dai vezzi della tradizione per farne un capolavoro di indimenticabile perfezione. La scelta è quella di astrarre la vicenda da un contesto geografico d’immediata identificazione (ci pensò già l’autore spostando l’azione a Firenze per evitare censure e proteste del pubblico) per renderla universale, sebbene l’Estro armonico vivaldiano e i richiami palesi a Pietro Longhi, pittore della civiltà veneziana che oggi ci osserva appesa alle pareti di Ca’ Rezzonico, la leghino fermamente al contesto storico sopraccitato. Lo spazio scenico creato da Gianluca Falaschi punta a una funzionale semplicità. Pareti rossastre fanno da sfondo a divani, tavole e sedie mobili, mentre i personaggi praticano quinte quasi impercettibili. I costumi, anch’essi di Falaschi, dichiarano fogge settecentesche, mentre solo alla rossa Mirandolina è riservato un look glam punk – pantaloni, stivali di pelle, camicia di pizzo bianca scollatissima – che ne esalta la natura aggressiva. Le luci di Claudio Coloretti rivendicano quell’oscurità tipica del Longhi, tanto che spesso gli attori recitano in penombra, inghiottiti dal nero di un avvenire incerto o di un passato ormai remoto. La locanda stessa diventa Venezia da cui tutti partiranno, lasciando Fabrizio e Mirandolina soli a constatare l’inevitabile caduta di un sistema sociale.
Le Moli ha lavorato molto sugli interpreti perché ogni personaggio risulti profilato nettamente per carattere e gestualità. Su tutti la Mirandolina di Paola De Crescenzo, maestra dello sguardo in tralice, del calibrato rapporto tra moto interiore e comunicazione corporale, si afferma quale attrice sapiente. Inaspettatamente, Fabrizio (Luca Nucera) non è il giovane cameriere della tradizione, ma un vecchio ciabattante e brontolone. “Bisognerà chiudere un occhio e lasciar passare qualche cosa” sostiene e chissà quante volte l’avrà chiuso in passato, se il patto nuziale si salda in tarda età. Ottimo Ripafratta quello di Emanuele Vezzoli, sovente in bilico tra autocontrollo e furor amoroso. Irresistibile il Forlipopoli di Massimiliano Sbarsi, affetto dalla smania di possedere oggetti, quasi a livello di attrazione fisica. Più controllato e signorile l’Albafiorita di Nanni Tormen. Brave le due comiche Ortensia (Laura Cleri) e Dejanira (Cristina Cattellani). Dalla dizione non sempre nitida il servitore del Cavaliere, Sergio Filippa. Luca Giombi è il servitore del Conte.
Pubblico nutrito e applausi per tutti alla recita del 20 novembre.
Luca Benvenuti