Venerdì 17 Febbraio 2017 alTeatro San Pietro di Montecchio Maggiore di Vicenza
Lo scorso Venerdì 17 Febbraio un Teatro San Pietro di Montecchio Maggiore gremito ha accolto Alessandro Bergonzoni con il suo quattordicesimo spettacolo, scritto e interpretato da lui stesso, “Nessi”, un one-man show ora in tour in molti teatri d’Italia. L’attore bolognese ha giocato per un tempo senza lancette – nessuno in sala controllava spasmodicamente cellulari o orologi – giocando tra significato e significante, destreggiandosi in una catena di assurdità. L’artista “ha stuprato” la lingua, inserendosi tra gli interstizi dell’Italiano – che domina, da laureato in Giurisprudenza qual è – svuotando termini e situazioni dal senso comune. Questo Pindaro emiliano ci distrae da noi stessi trasformando ogni battuta in un paradosso in continua trasformazione e ogni stramberia che sembra portare ad un vicolo cieco diventa sempre altro. “Nessi” è un moto inarrestabile, disomogeneo e discontinuo in cui è vietato perdere il filo: il pubblico è attivo, come in molte delle commedie di Wilde, ogni parola è accuratamente scelta, intrecciata ad un’altra che può riemergere anche molto dopo il momento in cui è stata proferita, diventando tormentone e scherzo anche minuti e minuti dopo. La messinscena, prima ancora dell’apertura del sipario, ci fa ascoltare un fuoricampo nonsense, un incrocio tra Lewis Carrol e Alessandro Baricco, ove accendere un interruttore al buio diventa la cosa più difficile al mondo.
Carmelo Bene alla fine dello scorso secolo si vantava di essere “uno dei pochi a parlare, poiché gli altri non parlavano, ma dicevano parole”, schernendo il pubblico attonito tuonando “Voi non parlate, voi siete parlati: il linguaggio vi trapassa, vi trafigge, vi trafora” concludendo con una risata e un monito: “Lei signora riesce a sfondare porte aperte? Lei no, ma io sì!”. Sulla falsariga dell’Attore salentino, Bergonzoni intreccia nessi con l’Universo facendo a meno del senso, saltando da un tema ad un altro, da un essere vivente ad un altro mostrando come si possa sentire lo stesso flusso vitale oltre ogni distanza e tempo: l’attore usa la dialettica facendosi beffe della retorica. Last but not least, Bergonzoni si diverte nel suo monologo-soliloquio ininterrotto: da istrione qual è, si pavoneggia tra grammelot giapponesi, russi-ucraini-cecoslovacchi-ubriachi e navajo e traspare nel testo la stessa vena del cantautore pugliese Caparezza di trastullarsi con il linguaggio, al punto da renderlo comico, fresco, sorprendente. In “Construção” poi, canzone scritta da Chico Buarque de Hollanda, uno dei più noti cantautori brasiliani viventi il testo, composto da tre strofe, per ogni strofa utilizza le stesse parole ma cambiando totalmente il significato delle tre microstorie: è quello che avviene in questa pièce, ove la risata iniziale porta allo stupore che diviene solo dopo rivelazione.
La scena è scarna: tre incubatrici a rotelle che lo accompagnano nel suo andirivieni, una fila di fari in fondo al palco, un grande hula hoop appeso al soffitto, un microfono appeso ad un’americana che lo aiuta nel monologo finale: assistiamo alla rivincita del corpo e della parola sugli orpelli scenografici e la musica. Si esce dalla sala storditi, con la netta sensazione di non aver colto tutto quello che si voleva dire – e forse è un bene? – con la voglia di rivederlo ancora, e poi ancora.
Chiara Cataldo