Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Assicurazioni Generali, dal 1° al 5 marzo 2017
L’ambiente in cui si svolge L’ora di ricevimento (banlieue) di Stefano Massini ricorda quello che Daniel Pennac ci ha fatto conoscere attraverso tanti suoi romanzi, saggi, articoli ed interventi: l’ambiente scolastico in una periferia multietnica francese. Il mondo da lui descritto ha per protagonisti gli adolescenti, mentre gli adulti restano sullo sfondo, evocati o presenti in modo marginale e, pur nella situazione difficile, la speranza non manca mai. Qui invece dei ragazzi, allievi di una scuola media inferiore, si parla molto, ma non appaiono mai (se non nel finale, quando si materializza un ragazzo, allievo di un tempo – Marouane Zotti – simile ad uno dei fantasmi natalizi di Dickens); a confrontarsi sulla scena, che rappresenta l’interno di una scuola, ci sono soltanto alcuni insegnanti (Fabrizio Bentivoglio e Francesco Bolo Rossini) e molti genitori, interpretati da Giordano Agrusta, Arianna Ancarani, Carolina Balucani, Rabii Brahim, Vittoria Corallo, Andrea Iarlori, Balkissa Maiga e Giulia Zeetti, che impersona anche la Prof.ssa Lagrange.
Se le interazioni fra queste due fondamentali figure di riferimento in ambito educativo sono da tempo fisiologicamente difficili, immaginiamo cosa possa avvenire in un contesto dominato da un’integrazione mancata fra musulmani di prima e seconda generazione, ebrei osservanti, indiani e cristiani di varie nazionalità.
C’è una scena che descrive questa realtà meglio di tanti altri discorsi già sentiti in abbondanza: la discussione sulle norme alimentari che il Professor Ardeche (Fabrizio Bentivoglio) deve impegnarsi a rispettare per non offendere la sensibilità religiosa di alcuno tenendo ovviamente anche conto delle intolleranze alimentari, pure presenti, dopo essere stato incaricato suo malgrado ad accompagnare la propria classe in gita. È una situazione, seppure portata alle estreme conseguenze, che può capitare di vivere ovunque in Europa e si prova un salutare senso di disagio nell’osservare quel che accade in scena da spettatori esterni, perché si riesce ad essere coinvolti e allo stesso tempo distanti; sembra facile, guardando da fuori, trovare la soluzione e ritrovarsi pacificamente concordi, ma nella realtà non sempre è così.
Spesso non basta il sincero desiderio di egualitarismo, suggerito anche dall’arredamento della classe così ben descritto nel necessario prologo, se alla fine si cambiano soltanto le etichette e, anziché vedere il musulmano, l’ebreo, l’induista o il cattolico si riconosce (o forse si ricerca?) in ogni classe “il raffreddore”, “l’invisibile”, ”il primobanco”, “il fuggipresto”, “il panorama”, “il boss”, “il bodyguard”, “il falsario”, “il campione”, “il rassegnato”, “il missionario”, “il cartoon” e “l’adulto”.
La difficoltà a vedere ognuno come essere umano, indipendentemente dalla propria appartenenza etnica, religiosa o culturale, è un esercizio faticoso, per niente agevole, un percorso accidentato nel quale non ci si può mai sentire al sicuro, perché i pericoli sono sempre in agguato e l’incomprensione foriera di catastrofi può giungere in qualsiasi momento: basta distrarsi un attimo.
Si preferisce dar voce agli aspetti negativi derivanti dall’essere minoranza, anziché cogliere le grandi opportunità: la flessibilità che questa condizione crea, le capacità di adattamento che essa sollecita o la possibilità di essere ponte fra mondi diversi.
Ecco allora che si vedono, da una parte gli allievi come “boa, pitoni e cobra” o “serpenti dotati di parola”, dall’altra la scuola come luogo di assimilazione, senza rendersi conto che arroccarsi su posizioni intransigenti non aiuta nessuno.
Anche l’insegnante, in fondo, pur essendo espressione della parte maggioritaria della popolazione, in quel contesto si ritrova nella condizione di soggetto debole: gli “altri”, tutti assieme, sono molti di più.
La leggerezza è assente qui, come evidenziato anche dalla scenografia: l’ambiente creato è essenzialmente vuoto, squallido, con pochi oggetti; la finestra sul fondo è opaca e dell’esterno si vedono soltanto sagome; le pareti sono vuote sul soffitto troneggia una fredda illuminazione al neon disposta come un gigantesco e beffardo “uguale”…
Auspicare l’unicità culturale in una ormai inevitabile pluralità è un controsenso, ma lo è anche il relativismo ad ogni costo, perché non è vero che qualsiasi cosa vada bene; il giusto equilibrio sta forse nel mezzo, in una situazione dinamica, non bloccata, nella quale coltivare le proprie radici intimamente e all’interno degli ambienti ad esse vicini, ma cercando di trovare all’esterno i punti in comune, farsi punto di incontro in cui far emergere ciò che si ha in comune con tutti gli altri, senza voler ad ogni costo mescolare ciò che sta al di qua e al di là della porta di casa, del luogo di culto o della comunità.
Si potrebbero scoprire così molte cose interessanti e arricchire così di molto la propria vita.
Quanto appesantiamo la nostra vita caricando noi stessi e l’altro di etichette, nell’impossibile tentativo di definire in modo statico qualcosa di totalmente dinamico come la vita delle persone?
Parlare meno e cercare comprendere di più, continuare ad osservare per se stessi le regole prescritte dal proprio culto, senza pretendere, giudicare né appiattirsi ad un comune atteggiamento, ma cercare di conoscere e rispettare le scelte o le radici altrui.
Essere consapevoli di quel che trasmettiamo con il nostro sguardo, l’abbigliamento, la gestualità, ci potrebbe evitare la sorpresa di una risposta non coerente alle nostre parole da parte dell’interlocutore, perché tutti questi elementi sono molto più potenti e, soprattutto, maggiormente rivelatori di quel che veramente sentiamo dentro.
Paola Pini