Venezia, Teatro La Fenice, dal 16 febbraio al 2 marzo 2017
Ricorsi della storia. Basta leggere Die Welt von Gestern (1942) per rendersi conto che i giovani umanisti d’oggi, al pari dei loro coetanei d’antan, sono costretti a “vivere sentendo[s]i mancare la terra sotto i piedi, senza diritti, senza libertà, senza sicurezza.” Situazione uguale a quella esperita dai bohémiens di Murger e Puccini, a conferma dell’adagio “impara l’arte e mettila da parte”. Nel clima quindi di sfiducia totale che ci attanaglia, “destinati alla sensibilità” come ricorda Gambardella nell’incipit de La grande bellezza, guardare Bohème con gli occhi di Francesco Micheli aiuta a sentirsi meno soli. Il regista bergamasco la dedica infatti “ai ragazzi, spiazzati dal presente”. Vige un’ammirevole fedeltà al libretto che non evita strizzate d’occhio al contemporaneo, senza compiere radicali e pericolose riscritture drammaturgiche. Ci troviamo davanti alle belle forme d’una Parigi da fiaba, tra tetti e comignoli dove gli amanti si trasfigurano in fantasime inebriate d’amore, tra afflati nazionalistici che infervorano i convenuti al Momus e casematte-alcova di bisticci sentimentali. Non siamo negli anni Quaranta dell’Ottocento, ma più in là, potrebbero essere gli anni Trenta da quanto suggeriscono le bellissime fogge variopinte proposte da Silvia Aymonino, se ci scorgo riferimenti alle parrucche della Dietrich in Blond Venus e maglioni dai disegni razionalistici. Le scene di Edoardo Sanchi mutano di continuo, soprattutto durante quel meraviglioso monumento alla spensieratezza, al motto di “la jeunesse n’a qu’un temps”, che è il secondo quadro, qui capolavoro d’armonia tra regia e scenotecnica.
Guida l’orchestra veneziana Stefano Ranzani, maestro che fa del dettaglio la lente sotto cui leggere l’intera partitura. Fin dal principio si percepisce la costante attenzione tra buca e palco come la scelta drastica di non scadere in languori troppo facili, ma di concertare con equilibrio e appropriato gusto coloristico.
Il primo cast annovera artisti di “casa Fenice”. Matteo Lippi è Rodolfo dai colori davvero pucciniani, complice la voce compatta e felicemente predisposta all’acuto. Tale sicurezza nel canto gli permette un’immedesimazione assai sciolta nel personaggio. Francesca Dotto dismette i panni di Violetta, ormai logori da quante ne ha cantate qui, per vestire quelli di Mimì. Se nel ruolo verdiano si fa apprezzare per interpretazione, carisma e peso vocale, soprattutto dal secondo atto, per la “gaia fioraia” la tessitura non è omogenea e migliorabile nel registro acuto. Rimangono indiscusse la predisposizione all’ottimo fraseggio e le buone doti d’attrice. Marcello interessante quello di Mattia Olivieri. Disinvoltura, bel timbro scuro e solida preparazione tecnica gli assicurano un risultato eccellente. Troppo leggera la vocalità di Laura Giordano per un ruolo, Musetta, che merita più spessore. Il valzer è eseguito correttamente, ma manca di quella seduzione che può dare una vocalità maggiormente densa. Bene il Colline di Luca Dall’Amico, quanto convincente lo Schaunard di William Corrò. Invecchia il Benoît di Matteo Ferrara. Completano la “bella compagnia” Andrea Snarski, Bo Schunnesson, Emiliano Esposito, Umberto Imbrenda e Dionigi D’Ostuni.
Il Coro del Teatro La Fenice, preparato da Claudio Marino Moretti, si assesta su livelli di ordinaria routine. Bravi i Piccoli Cantori veneziani diretti da Diana D’Alessio.
Teatro pienissimo alla recita del 24 febbraio e consensi generali da parte del pubblico.
Luca Benvenuti