Venezia, Teatro La Fenice, dal 21 aprile al 2 maggio 2017
Dopo sei anni, nella sala del Selva appare una nuova Lucia di Lammermoor. La criticità della regia pensata da Francesco Micheli, di cui ricordo Bohème (2011) e Otello (2012) quali prove felici nelle passate stagioni veneziane, alberga nell’eccesso d’informazioni date allo spettatore, riempita l’opera di simboli, concetti ed espedienti alla resa dei conti superflui e di difficile comprensione se non previa lettura delle note. Un ulteriore spostamento cronologistico, dalla Scozia del Cinquecento all’Italia rurale del primo Novecento, giustifica la realtà dove la famigghia e la robba anticipano qualsivoglia affetto. Procedendo verso questa personale suggestione, plausibile ma sviluppata in maniera inefficace con “troppo”, Micheli fa rivivere a Enrico, onnipresente per tutto il lungo incubo, la sorte della sorella Lucia, venduta al miglior offerente, e del rivale Edgardo. Tre orfani incapaci d’emanciparsi dal peso delle casate, disagio comprensibile se Raimondo e Normanno incombono recando sempre con sé rispettivamente la croce e un ritratto avito, ammonimenti alla lunga ripetitivi. Addirittura, la defunta lady Asthon si materializza per riabbracciare i figli, pezzi ‘e core nel bene e nel male. Incombente il deliquio, Lucia esegue una coreografia ove l’azione perde naturalezza: sopra un tavolo, tra calici innalzati e spostati di continuo, essa titilla i bordi dei cristalli, echeggiando la glassarmonica. Evitabile l’uso degli oggetti-feticcio per concretare i personaggi assenti, tali per precise logiche drammaturgiche; la pioggia di cartine in Verranno a te sull’aure (petali di rosa?) e Tu che a Dio spiegasti l’ali (le ceneri della Miss?); i tavoli ciondoloni, soluzione che piace a Micheli, se già nelle scelte delle scenografe per Il giardino delle ciliegie stoviglie in cielo e sedie di plastica per terra incorniciano il riuscitissimo vaudeville en travesti; l’impiego “soprannaturale” del coro che, trattato a mo’ di zombies in Come vinti da stanchezza e Di vivo giubilo, funge anche da cimitero vivente, steso sul palcoscenico durante Tombe degli avi miei.
Le scene di Nicolas Bovey devono restituire l’idea del patrimonio perduto. Al centro, ecco la roba, una catasta di mobili in legno, da dove le comparse entrano ed escono come tarli invisibili. L’ammasso sparisce man mano per lasciare spazio solo al tavolo su cui Lucia danzerà la follia. Come fondale si ricicla il ciclorama della Carmen di Bieito proiettandovi un cupo paesaggio romantico. Contestuali i costumi di Alessio Rosati, prevalentemente scuri, dal nero al verde, in linea con le cromie tetre create dalle luci di Fabio Barettin.
La direzione di Riccardo Frizza punta su tempi giusti, a tratti comodi per non abbandonare i cantanti. La brillantezza e l’eleganza della partitura rimangono intatte, complice l’orchestra compatta e un maestro conoscitore del repertorio, ma latitano momenti degni di essere ricordati se non come normale routine. In linea con la filologia, oltre alla riapertura dei tagli di tradizione, è ripristinata la glassarmonica al posto del flauto.
Il crudele Enrico di Markus Werba può contare su voce omogenea, colori sempre appropriati e ottima dizione, oltre che su una grande capacità attoriale, già a suo tempo confermata nello splendido Don Giovanni di Michieletto anni orsono. Nadine Sierra si disimpegna in una Lucia modesta, più manzoniana che donizettiana. La voce ha poca estensione, invero buona, anche di timbro, nel centro, sbilanciata agli estremi. Acuti e sopracuti quindi non sono perfetti, qui e lì striduli, e gli abbellimenti sovente artificiosi, possibili grazie ai rallentamenti di Frizza, circostanza che ad esempio rende la pazzia macchinosa e noiosa quanto i gesti prescritti dal regista. Manca inoltre un uso del canto che vada oltre l’aspetto tecnico, cioè maggior espressività e credibilità nella parte. Non sono ancora pronti i panni d’Edgardo per Francesco Demuro, qui con acuti non sempre centrati e attacchi pericolanti, sentasi Tu che a Dio spiegasti l’ali, causa l’esile ampiezza vocale. Rimane lodevole, ma non bastevole, il tentativo di conferire spessore al ruolo. Simon Lim imprigiona Raimondo in una linea di canto monotona e ingolata, mediocre nell’acuto, scarsa nell’attenzione a colori e interpretazione. Corretto l’Arturo di Francesco Marsiglia. Emendabile il Normanno di Marcello Nardis, quanto inconsistente l’Alisa di Angela Nicoli, coperta dalla compagine musicale.
Validissima, ancora una volta, la prova del coro, preparato da Claudio Marino Moretti.
Fiumi d’applausi a scena aperta, durante i numeri salienti dell’opera, costellano la prima del 21 aprile. Tributi finali per Lim, Werba, Demuro e Frizza. Standing ovation per Nadine Sierra, evento che alla Fenice si ripete a qualsiasi recita di Traviata o Barbiere con compagnie e pubblico d’ogni sorta. Consensi e contestazioni, una a suon di fischietto, per Micheli.
Luca Benvenuti