Teatro Eliseo, Roma, dal 26 settembre al 15 ottobre 2017
Ci vuole coraggio ad iniziare una stagione teatrale con un testo come Finale di partita, dell’irlandese Samuel Beckett, sovvertitore (insieme a Ionesco) della drammaturgia alla metà del 900. Inizia la nuova stagione del Teatro Eliseo, con coraggio perché non è un testo facile, come tutta la produzione del cosiddetto “teatro dell’assurdo”, che necessita di un’attenzione quasi religiosa, ma soprattutto di un sano lasciarsi andare da parte del pubblico al “suono” delle battute e a quello prodotto dai movimenti in scena, senza forzare troppo la ricerca dei significati reconditi (lo stesso Beckett metteva in guardia da ciò). Perché in scena, con Finale di partita, c’è tutta la concezione sì nichilista dell’autore, ma anche una tenerezza, una pietà per l’essere umano e per i personaggi sul palco, così ferocemente legati l’uno all’altro, da sostituire i brividi per una fine imminente con lampi di poesia sulle difficoltà del vivere. In quel preciso contesto storico (del 1957 la prima rappresentazione, al Royal Court Theatre di Londra) come oggi. Non è forse l’uomo solo di fronte all’insondabilità dell’universo? O alla sua stessa insondabilità? Non siamo forse sempre sordi, chiusi in un tragico individualismo e incapaci di mettere le nostre “anime” di fronte a quella del prossimo? Ostili ma complementari, pronti ad abbandonarci ma indissolubilmente legati in una tragica, farsesca, grottesca e comica infelicità.
Glauco Mauri e Roberto Sturno riescono nel loro intento, che era dichiaratamente quello di mettere in scena la tenerezza e l’umanità di “un grande poeta della difficoltà del vivere dell’uomo”. Hamm (Mauri), cieco e costretto su una sedia, il suo fido Clov (Sturno), condannato a non potersi sedere, i genitori di Hamm Nagg e Nell (Mauro Mandolini ed Elisa Di Eusanio) chiusi nudi dentro contenitori di immondizia, resi trasparenti dal regista Andrea Baracco in questa versione, sono i personaggi emblematici di quest’opera, cristallizzati in un ambiente decadente, grigiastro, in attesa che ognuno compia il suo corso verso la fine che, forse, è giunta. Sorriso e angoscia si susseguono nei dialoghi, ironia e anche speranza, subito negata. Lasciarsi andare, godere delle interpretazioni di un gigante del teatro come Mauri e dell’affiatamento tra lui e Roberto Sturno e gli altri partner di scena, è forse il modo di apprezzare l’essenzialità di questa drammaturgia dell’impotenza umana e dell’inevitabile rassegnazione, ma addolcita da una consolatoria umanità, da uno smarrimento poetico che i protagonisti riescono a far emergere prepotentemente e con calore. Da vedere. Si replica fino al 15 ottobre.
Paolo Leone