All’Off Off Theatre di Roma, fino all’8 novembre 2017
Il nuovo Off Off Theatre di via Giulia presenta il terzo progetto in cartellone: L’effetto che fa di Giovanni Franci, con Valerio Di Benedetto, Riccardo Pieretti e Fabio Vasco .
Il regista Franci ha scritto questo spettacolo alla luce dell’evento di cronaca romana riguardante l’assassinio di Luca Varani da parte di Manuel Foffo e Marco Prato.
Il caso è stato seguito da tutta Italia, è stato portato in televisione, sono state ascoltate le famiglie. C’è stata curiosità, indignazione e si è cercato di capire perché quel ragazzo si è recato dai suoi assassini.
La giustizia ha emesso il suo verdetto, i colpevoli sono stati arrestati e la verità sembra essersi svelata.
Cosa resta ancora da dire? Qual è l’esigenza che ha spinto Franci a scrivere e mettere in scena L’effetto che fa? Non certo un desiderio voyeuristico, come spesso fanno i media, neanche una presunzione di svelare dei dettagli nascosti, piuttosto il bisogno di capire cosa significhi quest’atto crudele e come ne siamo coinvolti noi tutti.
Un atto atroce senza movente, se non quello di vedere che effetto fa uccidere, svela un lato nero dell’essere umano, che non può essere compreso e quindi non può essere archiviato (dice Riccardo Pieretti, interprete di Luca).
Uccidere per divertimento, dopo ore di torture su un corpo indifeso e paralizzato dal GHB (la rinominata droga dello stupro), è inumano, ovvero che l’uomo non può fare. Eppure l’uomo lo ha fatto, allora cos’è l’uomo, chi sono io, chi siamo noi?
I protagonisti di questa storia sono Luca e Roma, la Capitale disfunzionale, sporca, invasa dai topi, incubatrice di solitudini nel caos.
Il testo non è un racconto, non una struttura di finzione, non lascia spazio all’interpretazione, non vuol ritrarre un mondo in cui la verità si frantuma tra bene e male, tra prima e dopo. Il testo è una dichiarazione lucida e cosciente, in uno scenario di perdizione e allucinazione. I tre protagonisti non si nascondono, ma portano a termine i loro atti, maturando un riconoscimento del proprio io e questa limpidezza non chiede un giudizio. Lo spettatore non è davanti la televisione, dove può commentare, non è in un processo, dove c’è difesa e accusa, è presente a se stesso e gli viene rivelato l’orrore supremo: “siamo destinati al male, perché il male ci pervade”. Non troviamo giustificazioni, né movente, né equivoco, tutto è successo perché “il bene non fa parte della nostra natura, è un falso ideale a cui tendiamo nel tentativo di sfuggire alla nostra natura”.
Non si può sopravvivere, siamo abituati a nasconderci dietro dei ruoli, vittima da una parte e carnefice dall’altra e quando siamo l’uno ci rassicuriamo nel poter essere l’opposto il momento dopo. Restiamo homo homini lupus, nella società che ci siamo costruiti non c’è altra legge.
Fa paura sentirlo, perché per vivere noi lo nascondiamo bene a noi stessi, ci voltiamo dall’altra parte e diamo facili risposte a ciò che non capiamo, per pulirci la coscienza.
L’effetto che fa invece ci vuole sporchi, ci vuole reali, tridimensionali.
Venendo a capo di questa storia quella domanda, quella che chiede perché Luca è andato lì, se per prostituirsi o vendere coca o per trovare un lavoro, non trova più spazio. No, adesso abbiamo delle domande più forti, che ci squarciano dentro, adesso il piccolo diventa grande e il grande piccolo. Adesso siamo entrati nella casa degli orrori: il caso da una parte, il desiderio di affermarsi nella società dall’altra, la droga e la disperazione. Tutto questo sembra molto più vicino a noi della cronaca letta o sentita.
Franci non si tira mai indietro, “il fascismo ha compiuto la sua parabola, non diventando un’ideologia è diventato un atteggiamento” fa dire a Luca, la vittima, il capro espiatorio, che presenta al pubblico il percorso da martire che ha vissuto, la sua passione, l’ultima cena.
I personaggi sono sempre centrati, mai sopra le righe, mai sotto, sono vivi, i loro sguardi parlano e gli ultimi monologhi sono struggenti. Uno alla volta si congedano dal pubblico, raccontando la loro disperazione per non essere stati accettati, per voler essere altro, per non sapere chi fossero. La colpa è dei padri che per parlare di Manuel e Marco usano un noi generico, che non hanno accettato la loro omosessualità, negandogli di essere se stessi. Così alla fine Valerio di Benedetto (Manuel) spiega che se avesse colpito direttamente il padre non sarebbe cambiato nulla, tutto sarebbe diventato spiegabile, un comune omicidio familiare. Invece così può sovvertire le tre strutture su cui si basa questa società: la famiglia, la coppia e il lavoro.
La regia infine innalza l’opera insieme al testo e alla recitazione, in modo mimetico interviene come il montaggio in un film, prepara le parole e i corpi a mostrarsi al massimo della loro potenza comunicativa.
Prende dal linguaggio cinematografico gli elementi teatrali e li riporta al teatro. Vediamo un filmato, proiettato, Marco che canta Dalida, Luca che viene spogliato al buio, con solo la luce del pannello dietro a contornare le siluette.
L’effetto che fa prende un fatto particolare per raccontare un momento storico, un lato dell’essere umano per smascherarne la sua natura; usa il linguaggio teatrale senza preoccuparsi di contaminarlo, restituendogli la sua dignità, proponendo una catarsi nuova, aderente al nostro secolo, più restio a lasciarsi trasportare.
Federica Guzzon