“12 CANTI PER JANE AUSTEN” di Enrico Bernard
Le frasi in corsivo dei sottotitoli sono tratte dalle pagine di Jane Austen come fonte di ispirazione.
CANTO I
L’immaginazione di una donna corre sempre: dall’ammirazione passa all’amore, dall’amore al matrimonio, tutto in un istante.
Com’è bello sentire i passi dell’amato
avvicinarsi lentamente lungo l’alberato
viale cosparso di foglie che l’autunno
ha disordinatamente sparpagliato
coprendo le tracce di ciò che fummo
così da cancellare i più tristi ricordi
che nell’anima suonan come accordi
sempre più lontani, persi nel tempo,
come arbusti secchi sferzati dal vento.
E’ forse un sogno ciò che sto vivendo
il respiro nel petto ansioso trattenendo?
C’è veramente qualcuno ora alle mie spalle
oppure se mi giro vedrò solo foglie gialle
piegarsi come calpestate dallo stivale
di una fantasia che ha del demenziale?
Non voglio voltarmi: preferisco tenere
lo sguardo fisso davanti per non vedere
che solo il Nulla crea un fantasmagorico
vortice dietro di me fatto solamente d’aria,
un soffio appena che lo spirito allegorico,
alimento di femminile natura temeraria,
istiga in me un’illusione involontaria.
E se lui davvero mi seguisse sul sentiero
senza avere il coraggio di avvicinarsi
troppo, per confessarmi il suo più vero
sentimento? Com’è bello innamorarsi
come Romeo e Giulietta addormentarsi
insieme, al canto dell’usignolo risvegliarsi,
e poi di nuovo tra le braccia rituffarsi,
ritrovarsi, stancarsi, guardarsi, sposarsi!
Fosse anche Nessuno colui che viene
per dichiarare tutto il suo amore
io salterei di gioia e scorderei le pene:
chiuderei gli occhi e gli aprirei il cuore,
gli donerei il sangue che scorre nelle vene,
se solo sapessi che la promessa lui mantiene
e non corresse dietro al richiamo di sirene
che l’allettano con mille proposte oscene.
CANTO II
Nessun incanto è pari alla tenerezza del cuore.
Posso restare in silenzio per ore
ad ascoltare il suono delle parole
che mi sussurra una voce interiore,
dall’esterno non viene altro rumore:
tutto è racchiuso nell’eco del cuore.
Non sono più io stessa a percepire
le vibrazioni ch’è impossibile udire
se il corpo con l’anima non sa sentire
di essere parte dell’intero universo
in cui altrimenti l’individuo è disperso.
Ciò che mi circonda prende sì vita
innestandosi in me come una ferita
da cui d’improvviso mi sento guarita
quando comprendo di essermi unita
al reale appena sfiorato dalle mie dita.
Ora tocco l’oggetto e questo diventa
al solo contatto qualcosa che annienta
entrambi: siamo la stessa identica cosa,
ora, come lo sono la spina e la rosa,
come è l’amato che sogna ogni sposa.
M’accorgo però che devo star bene attenta
il sentimento che provo un po’ mi spaventa:
posso innamorarmi di un fiore o di un frutto,
di un albero o di qualsiasi altra parte del tutto,
perché troppo vasto è l’amore che provo
al punto che il mondo è sempre nuovo
come fossi il pulcino uscito dall’uovo.
Ah! Se solo riuscissi a trattenere il respiro
o a sollevarmi come farebbe un fachiro
al di sopra di questo soggettivo delirio
in cui ciò che è fuori di me si trasforma
in percezione imprimendomi la sua orma,
allora non mi sentirei inseguita dall’ombra
d’un amor che a nulla amato amar perdona
nella speranza della felicità che m’abbandona.
Ah! Potessi sfilarmi dalla mente questo chiodo
e sciogliere nel petto l’angoscioso nodo
che mi stringe dentro finché non esplodo.
CANTO III
Sono la creatura più felice dell’universo. Forse altri lo hanno detto prima di me, ma nessuno con tanta ragione.
Ora ragiono con calma: cosa mi manca,
come mai di viver mi sento tanto stanca?
Forse perché niente riesco a possedere
e nulla posso nelle mie mani trattenere
da cui come sabbia svaniscon le chimere
dell’infinita gioia legata a un cavaliere
che ai miei sogni faccia da cocchiere?
Io fin dei conti ho tutto ciò che serve:
scrittoio, penna, calamaio e le riserve
economiche per sostenermi a stento
nella speranza d’ottener il gradimento
del pubblico che comunque va a rilento.
Le creature femminili che io rappresento
sono tutte proiettate verso il firmamento:
amano, soffrono e poi trovan godimento
quando nel finale arriva il fatidico momento
in cui l’amato e l’amante fan giuramento.
Ma è così anche nella realtà del quotidiano
in cui piuttosto che prendersi per mano
chi si ama spiritualmente dall’altro va lontano
come se la forza d’attrazione e repulsione
si equivalessero nel sentimento umano
che spinge con forza all’orlo del burrone?
Se tutte le storie d’amore finissero bene
nel mondo non ci sarebbero più pene
ma solo danze di gioia di angeli nel cielo
che scendono rapidi a stendere il velo
sul capo della più fortunata delle donne
che passerà la sua prima notte insonne!
Anch’io mi auguro un simile lieto fine
anche se all’ottimismo sono poco incline:
troppe volte ho visto i miei fiori appassire
nonostante l’innaffi con queste belle rime.
Sia però quello che deve esser per forza:
del succo io mi nutro, a voi lascio la scorza
della vita che sembra più dura della pietra
che non si fa di certo intenerire dalla cetra
che lentamente ahimé! il suo canto smorza.
CANTO IV
Non è proprio l’indifferenza verso il resto del mondo l’essenza del vero amore?
Quando non c’è più il giorno,
quando svanisce anche la notte,
quando l’andata è senza ritorno
e il buio vorace tutto s’inghiotte,
è come se la luna attirasse a sé
la marea che lentamente sale da te.
Un’onda che sommerge il mondo
e ti entra nel cuore, dolce fanciulla,
come brezza tra rami d’una betulla
che li fa ondeggiare fino a spezzarsi,
sembran che stiano per abbracciarsi.
Non è poi così difficile innamorarsi,
basta cancellare il presente, scordare
il passato come una nota stonata,
ciò che è e al tempo stesso ch’è stato,
lasciandosi lievemente cullare
dalla luce che emaniamo da dentro
e che nulla col sole ha a che fare:
sono raggi che parton dal centro
del nostro stesso essere quando siamo
privati d’ogni difesa e lottiamo,
oh sì che strenuamente lottiamo,
ma alla fine annunciamo la resa
perché non si può resistere
a colui che non smette d’insistere.
Così a poco a poco realizziamo
che la realtà è un’appendice inutile
in cui il sentimento più puro
può addirittura corrompersi nel duro
confronto con la crosta del tempo
che rimane da vivere e che l’eterno
volo dei sensi fa sbattere al muro.
Per questo bisogna dimenticarsi di tutto,
non farsi trascinare al fondo del brutto:
con la vita abbiamo un conto sospeso
mentre lo spirito è come proteso
a considerarsi unico nel proprio genere,
spasimante assoluto d’un astro il cui peso
trae nella sua gravitazione anche Venere.
CANTO V
Ho lottato invano. Non c’è rimedio. Non sono in grado di reprimere i miei sentimenti. Lasciate che vi dica con quanto ardore io vi ammiri e vi ami.
Ad un certo punto esplode anche il cuore
che non è un vaso ermeticamente chiuso,
ma la parte palpitante del nostro essere
mediatore d’emozione della sfera interiore
col nostro alterego che è come un intruso.
Tocca allora a lui cominciare a tessere
la ragnatela in cui come zucchero filato
dolce è cadere nonostante si sia lottato!
Ci si arrende così facilmente se la mente
si perde nei battiti che pulsan le tempie
come tamburi tribali, suoni ancestrali
del richiamo della natura che mette le ali
facendoci dimentichi dei tanti mali
che ci portiamo dietro, mentre gli strali
di un improvviso benessere comportano
il passaggio dal razionale all’arcano.
Non ha quindi più nulla di umano
il sentimento che esula dal quotidiano
per trasferirsi su tutto un altro piano
dove le parole non fan più da volàno.
E vòlano, vòlano, vòlano in alto
verso l’empireo con l’immenso salto
dall’oggi al domani, da ieri al remoto,
e poi nuovamente dal futuro al passato,
provocando un maremoto, un terremoto
nel petto di chi sa d’esser già condannato
alla perenne ricerca del proprio amato.
Poi, quando si spegne la luce degli occhi,
la notte prende il sopravvento e i rintocchi
di una campana rendono fresca la terra
e poi morbida, calda e umida serra
in cui la materia si trasforma in polvere
e viene dispersa dal caldo vento della sera
come se la radice vegetale fosse un’arteria
capace di trasformare le ceneri dell’amore
che provammo in un frutto o in un fiore
o in una sostanza ancora più eterea.
CANTO VI
Amare la danza era un passo certo verso l’innamoramento.
Leggero il corpo si muove come su piume
di cristallo che sembrano perle ghiacciate,
particelle schizzate dalla superficie del fiume
e sospese nell’aria tersa del mattino e dorate
dai primi raggi del sole che tra i rami spogli
s’insinua da amante nel letto di molte mogli.
L’armonia dei movimenti si trasmette anche
all’anima attraverso un passaggio dalle gambe
al cuore che batte nel petto e pulsa la linfa
vitale per ogni dove ubriacando il cervello
che dell’euforia ad ogni passo alza il livello.
I miei piedini sembra che si muovan da soli
quando nella casa di Chawton passo i saloni
per andarmi a spofondare tra i braccioli
della poltrona costringendomi ai copioni
che sul tavolino tondo in mezzo alla stanza
sono come in attesa che in ogni circostanza
io dedichi loro un po’ della mia attenzione,
anche se mia sorella Cassandra e mia madre
non fanno tanto caso alla mia concentrazione
rubandomi pensieri e parole come due ladre.
Ma ecco che l’armonia del movimento ritorna
provocato dall’interiore sintonia che trasforma
il femminile chiacchiericcio che mi circonda
in un canovaccio dal quale io di volta in volta
prendo spunto, un appunto, una frase qualunque
pronunciata da loro che si traduce in una svolta
del dialogo, in un brano che mi serve comunque
perché non può scriver romanzi chi non ascolta.
Quindi quando Cassandra a mia madre racconta
i pettegolezzi che raccoglie in giro dalle amiche
io mi lascio volentieri investire dalla sue raffiche
di parole che la sua lingua spara come pallottole
che non sono poi tanto serie ma solo frottole!
I personaggi delle sue narrazioni sono trottole
che mi girano intorno animate da una melodia
che m’entra dentro stuzzicando la mia fantasia:
mi danzano davanti agli occhi preda di gelosia
perché l’amore è sempre l’eccesso d’una manìa!
CANTO VII
Senza musica, la vita sarebbe un vuoto per me.
In un angolo della grande casa il Clementi piano
è l’amante che aspetta teneramente la mia mano
per sussurrar cose che non posson dirsi a parole
ma con la speciale vibrazione di corde nelle gole
di chi si sente affine – e solo quast’armonia vuole.
Io non sono assolutamente fatta per la tristezza,
non ho avuto vita facile, non godo di ricchezza.
Sono solo una ragazza che cominciò a sognare
forse troppo presto e i suoi sogni a trasformare
non in letteratura ma in uno spartito musicale.
Prima vengon infatti l’intuizione e il sentimento,
poi la precisa descrizione di tutto quel che sento,
infine con Cartesio posso dire: son perché penso.
Ma da dove parte il processo di sedimentazione
se non dalla nota prima stonata, quindi armoniosa,
che le agili dita plasmano in una composizione
che sembra gradita perché all’inizio commuove
anche se diventa sempre più trita e appiccicosa
nel suo sforzo di fornire della bellezza le prove,
ma poi infastidisce quando la corda si spezza
e l’idillio lascia posto al dolore e all’amarezza?
La musica può davvero liberare dalle miserie
della vita? Può davvero farci amare l’amore?
Oppure è uno strumento utile a fare più serie
considerazioni una volta sincronizzato il cuore
con l’intelletto che ha bisogno di uno stimolo
per abbattere della nostra società ogni idolo?
Non posso negare che parlar solo d’educazione
sentimentale possa sembrare un po’ riduttivo,
in fondo ciò che si sente nell’animo è vivo
grazie a tutte le componenti della formazione:
se si sente il bisogno di ricorrere all’evasione
vuol dire che nessuno di noi è in condizione
di realizzare se stesso e ciò rappresenta un difetto
che voglio mettere in luce con la mia narrazione.
Tuttavia devo pur sempre alla musica l’effetto
di costruire la forma spirituale del mio concetto
e dare così le fondamenta alla mia costruzione
di un mondo migliore, pur non ancora perfetto.
CANTO VIII
La vita non è altro che una veloce successione di cose inutili.
Il mio anello col turchese incastonato nell’oro
non ha sempre il celeste colore della felicità:
è un talismano che può anche aprire un foro
nella mia anima che allora perde di creatività.
Nell’attimo in cui cala nel mio cuore la sera
mi sembra di caricarmi sulle spalle ogni peso:
sofferenza, ansia e angoscia di chi si dispera
e al collo dal mostro della depressione è preso.
Non guardatemi allora, lasciatemi la mia dignità,
voglio essere in pieno possesso della mia libertà
di soffrire volontariamente e non sempre gioire
falsamente perchè al vivere s’alterna il morire.
Quando sono triste per favore lasciatemi in pace,
sotto i carboni ardenti dell’anima mia arde la brace
della passione che ora produce grande euforia,
ora si traforma in uno stress interiore che invia
messaggi subliminali alla mente in piena pazzia.
Ecco allora che resto disperatamente sola,
rinchiusa in me stessa come chi più non vola
sull’ali dell’allegria, ma si rintana nella propria follia.
Che hai, che ti prende? Si preoccupa Cassandra
che da brava sorella percepisce che se non canta
la nota, vuol dire che la corda che suona è spezzata
e che nulla al mondo è peggio d’una rima troncata
sul nascere dal Poeta che non sa più cosa esprimere.
Quando le parole ti si smorzano in gola, come
chiuse in una gabbia da cui non possono uscire,
la vita diventa l’equivalente di un lento morire:
e nessuno riesce a nominare la morte per nome.
CANTO IX
Desiderare voleva dire sperare, e sperare attendersi che la speranza si realizzasse.
Poi d’improvviso ecco un bel giorno di sole
non tanto frequente da noi in questa stagione:
le rocce bianche a picco sul mare han il colore
della spuma bianca dell’onde che l’inclinazione
della sfera celeste inseguono come fidanzati
che si cercano nei labirinti della loro passione
dopo essersi mille volte abbracciati e baciati.
Dalle scogliere di Dover la risacca solleva
un nebbiolina salmastra che si posa sul tetto
della casa e quando apro la finestra si leva
di nuovo in un vortice in cui l’odore dell’erba
si mischia al pungente profumo che riserba
questo mare che pare immenso anche s’è stretto.
Dall’altra parte spunta dalla nebbia la costa
di Calais, la Francia… Invidio Mary Shelley
che in fuga dall’Inghilterra si è fermata da me
e mi ha detto parole affettuose che non potrei
ripetere senza arrossir di vergogna, chissà perchè!
Ricordo che siamo andati a passeggio in giardino
tenendoci la mano, mentre Percy Shelely scriveva
qualcosa, forse alcuni versi del Prometeo, sul taccuino.
Non so precisamente che cosa ci siamo dette,
lei non aveva ancora scritto le sue storie maledette
del Frankenstein, che io non ho potuto leggere più.
Il discorso, questo le ricordo, cadde su sua madre
che si chiamava come lei Mary e del femminismo
sposò la causa con argomenti acuti come le spade
contro la morale borghese e il suo perbenismo.
Si era in effetti sparsa la voce che stessi scrivendo
anch’io di argomenti concernenti la femminilità,
ma la mia fortuna letteraria la vidi solo dall’aldilà,
perché tutti gli editori mi rifiutavano in verità.
Mary mi strinse a sé e predisse: vedrai che arriverà
la fama, al tuo nome futuro la gloria non mancherà.
La giornata serena trascorsa con Mary a cogliere
fiori e i primi frutti dell’orto riuscirono a togliere
dalla mia mente i brutti pensieri. Anche se morta
sarei da lì a poco, quell’incontro mi aprì una porta
di speranza nel futuro e mi sentii come risorta.
CANTO X
Vi è una ostinazione in me che non tollera di lasciarsi intimidire dalla volontà altrui. Il mio coraggio insorge a ogni tentativo di farmi paura.
Noi donne siamo forti e coraggiose, Mary disse,
anche se ci fanno passare come bambole d’Ulisse,
il prototipo maschile come Omero lo descrisse:
in realtà ci vuole più coraggio a partorire l’uomo
che a sfidare Polifemo come fece lui da gnomo.
Quello che piuttosto ci spaventa a morte è Crono,
il tempo che passa e che ci stende addosso un velo
di mestizia, appassisce la bellezza, si curva lo stelo…
insomma il nostro portamento diventa uno sfacelo.
Tu, continuò Mary, potresti ancora prendere marito:
hai scritto tante storie d’amore che mai hai esperito,
quindi non ti manca l’esperienza per sceglierti qualcuno
per passare il resto della vita, che sia biondo oppure bruno.
Sorrisi a quella profezia che mai si sarebbe avverata
perché dopo pochi mesi io fui morta e sotterrata,
ma di ciò parlerò poi: non voglio che sia anticipata.
Correva dunque l’anno milleottocentosedici,
strinsi la mano a Percy Shelley e abbracciai Mary
come una sorella: s’accomiatò ripetendo “credici”
alla vita, ne riparliamo al mio ritorno! Ma pure lei
non credeva che ci saremmo riviste dato che la sorte
per noi non aveva altro in serbo che la Morte.
Li accompagnai con lo sguardo lungo il viale,
poi me l’immaginai stringersi forte sulla nave.
Quando prese il largo i marinai issarono le vele
mentre all’orizzonte si stava apparecchiando
una tempesta che pareva voler strappar le tele
dall’albero maestro riversando dolore e pianto
sui due amanti felici di stare l’uno all’altro accanto.
Tornai in casa che fuori era oramai già notte,
cupa e spaventosa come gli antri delle grotte,
mi rinfrancai riscaldandomi davanti al camino
che ardeva scoppiettante come se la fiamma
volesse attecchire sul mio corpo lì vicino:
sono secca e magra come una legnosa canna
e non posseggo nulla dell’eterno femminino.
Non so quanto tempo passai davanti al fuoco
che lentamente si fece sempre più fioco
fino a spegnersi del tutto a poco a poco.
CANTO XI
Devi imparare un po’ della mia filosofia: del passato bisogna ricordare solo quello che ci dà gioia.
Sono andata a rovistare giù in cantina
e ho ritrovato i giocattoli da bambina
con cui passato dell’infanzia il tempo
ad immaginarli vivi e con sentimento.
In una casetta in miniatura apposta
costruita rappresentavo la nascosta
drammaturgia della loro breve vita
animandoli con dei fili tra le dita.
Il passo successivo è stato quello
d’immaginar un bacio o un duello
tra marionette che poi sul più bello
s’afflosciavano – ché mi mancava forza
per insistere a muover questo e quello.
Ma esse continuanvano giocoforza
ad esistere e agire nella mia fantasia
finché non si stabilì tra noi un’empatia,
anzi più precisamente dirò una simpatia!
La fanciulla segretamente innamorata
ero io, anche se a patire condannata
perché non c’è storia senza gelosia
e di sofferenze è piena ogni libreria.
Ora la polvere copre della memoria
il teatrino da cui nacque la letteraria
mia passione per le fanciulle in fiore
che ingenuamente credon nell’amore.
Recentemente ho letto uno scrittore
tedesco che ha scritto un bel romanzo
sulla disperazione di un giovane amante
che nella vita borghese non ha speranze.
Si chiama Werther questo personaggio
dall’Ortis del Foscolo prese assaggio.
Io credo che la nostra epoca sia piena
di esseri disperati ch’espimono disagio
e che sentono la vita come una catena.
Proprio questo che io voglio esprimere,
non m’interessa ciò che la Brontë dirà
della mia opera che affronta la realtà
e rappresenta una critica a questa società
che penalizza ogni più elevato sentimento:
nega lo spirito in nome dell’arricchimento.
CANTO XII
La festa migliore è quella che finisce prima.
“Io sono la creatura più infelice dell’universo,
forse altri recitaron prima di me questo verso,
ma nessuno con tanta ragione si sente perso.”
Questa è l’ultima battuta scritta dall’autrice
che ho voluto tradurre dalla prosa alla posia
per far capire quanto intensa l’opera sua sia
e la modernità per tutto quello che ci dice.
Jane Austen morì in circostanze misteriose
probabilmente a causa di un avvelenamento
da arsenico nel mezzo del mese delle rose,
il diciotto luglio milleottocentosiciassette
questa la data esatta del funesto evento.
Jane aveva quarantadue anni al momento,
visse sempre in condizioni assai ristrette,
non raggiunse subito le letterarie vette.
Anche per sé il matrimonio lei sognò
putroppo il suo sogno mai le si avverò;
solo alle sue figure il lieto fine consegnò.