Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Sala Assicurazioni Generali. Dal 14 al 18 febbraio 2018
L’incontro tra la drammaturgia di Vitaliano Trevisan e la regia di Gabriele Russo con Il Giocatore di Fëdor Dostoevskij bene si inserisce nel percorso che la Compagnia del Teatro Bellini ha intrapreso in passato proponendo, tra l’altro, la riduzione teatrale di Qualcuno volò sul nido del cuculo anch’esso testo letterario prima di diventare un film indimenticabile.
Con questa pièce si va ancora oltre, grazie a un’intelligente alchimia attraverso la quale sono stati esplorati con accortezza il legame tra l’Opera e l’esperienza personale dell’Autore, inserendovi pure acuti riferimenti all’attualità. Tutto avviene grazie a una struttura a specchi realizzata su più livelli e lo spettatore può divertirsi a cogliere somiglianze e differenze, esperienze vissute in prima persona o meno, guidato dai personaggi che Dostoevskij ha saputo creare da par suo, nonostante la fretta e la pressione che l’editore aveva agito su di lui con un contratto capestro: non avesse consegnato un nuovo romanzo entro una certa data, avrebbe perso i diritti sulle opere precedentemente scritte.
Le caratteristiche di ognuno sono espresse in modo articolato a partire dal romanzo, per giungere ad un’interpretazione dalle tonalità accese e ben definite, esaltate anche dai costumi caratterizzanti i singoli personaggi in modo inequivocabile, senza essere eccessivi o scadere nel grottesco.
La lettura misurata di una vicenda dotata interiormente di proporzioni gigantesche non è cosa semplice, ma questo spettacolo vi riesce modulando con leggerezza gli equilibri interni al gruppo, grazie anche alla scenografia di Roberto Crea e al disegno luci di Salvatore Palladino che, coerentemente con il resto, contribuiscono a mostrare con il rispettivo linguaggio la distanza che corre tra la sostanza interiore e la forma esteriore, capace a sua volta di contenere una ricca densità o di coprire un vuoto rarefatto.
Il gioco, o meglio la dipendenza da esso che fa perdere alle persone il contatto con la realtà e con gli affetti è il vero soggetto. Intorno a ciò tutto ruota: lo si capisce dal nome della località, Roulettenburg, l’immaginario luogo in cui si svolge la vicenda ma che adombra Wiesbaden, e che trova nel casinò un perverso centro gravitazionale, un inquietante buco nero che attrae tutti, senza distinzioni; lo si coglie dalla premura ansiogena di Dostoevskij nel terminare la creazione del romanzo, espressione anch’essa della smania autodistruttiva dell’autore, costretto dall’editore a ritmi al limite dell’impossibile a causa della sua abitudine a perdere somme esagerate; lo si percepisce dall’interessante attribuzione di un doppio ruolo (autore e dattilografa, alla quale fu dettato il testo nella realtà da una parte, protagonisti della finzione dall’altra) alla coppia di protagonisti delle due vicende parallele (Daniele Russo è sia Dostoevskij che Aleksej, mentre Camilla Semino Favro ricopre i ruoli di Anna Grigor’evna e Polina); tutto è tenuto assieme dalla presenza del Croupier (Alessio Piazza), ombra inquietante di un deus ex machina, controllore del tempo che passa con una grande clessidra a fargli da scettro.
Memorabile è l’apparizione della “Baboulinka” (Paola Sambo) che rompe il fragile e interessato equilibrio tra il nipote generale (Marcello Romolo), M.lle Blanche (Martina Galletta) e De Grieux (Sebastiano Gavasso), mentre Mr. Astley (Sebastiano Gavasso) se ne sta in disparte a osservare, pronto a intervenire al momento opportuno.
Per alcuni è possibile “smettere, fermarsi e andare a casa”; per altri la speranza di uscirne vincenti con la certezza che “domani tutto finirà”, necessaria per dimostrare al mondo il proprio valore, governa ogni cosa, condiziona qualsiasi azione, crea la gerarchia con cui determinare le priorità. La consapevolezza di essere in trappola non è sufficiente per cercare il modo di uscirne, né il desiderio di una vita diversa, ma è necessaria un’azione chiara e precisa per giungere al suo superamento.
Dostoevskij lo aveva capito e trasformò la dipendenza in soggetto della propria arte: scrivere de mostro che divora il proprio interno per dargli forma e vincerlo una volta per tutte dopo averlo finalmente osservato, dentro e fuori, in tutta la sua bestialità.
Paola Pini