Al Teatro Verga di Catania, fino al 18 marzo
Dopo l’innovativa rilettura dell’“Otello” shakespeariano, Luigi Lo Cascio e Vincenzo Pirrotta tornano a teatro per affrontare una delle opere più controverse dell’epoca elisabettiana, “Tamerlano il Grande” di Christopher Marlowe. Marlowe, considerato il più grande autore del Cinquecento dopo il bardo e Jonson, apparteneva a una generazione di autori che erano riusciti a trovare un proprio ruolo nella dimensione teatrale emancipandosi dalle compagnie di attori e portando al centro delle proprie opere il gusto degli spettatori; segnando l’inizio del teatro moderno.
Prendendo le mosse dall’opera inglese, Lo Cascio, nella doppia vesta di autore e regista, destruttura la figura granitica del guerriero Tamerlano, al cui personaggio infonde una complessità psicologica del tutto inedita, focalizzando al contempo l’attenzione sulla tematica portante della guerra attraverso l’inserimento di scene-inserto, dove il colore dei diversi dialetti d’Italia restituisce il punto di vista dei soldati. E’ un aspetto universale dove la temporalità è data solo dai costumi di Nicola Console e Alice Mangano, che firmano anche le scenografie.
La smania di sangue e potere che accompagna Tamerlano sin dalla più giovane età, crescerà nel tempo trasformandolo nel tanto temuto «flagello di Dio». Eppure il feroce conquistatore sciita, che con il suo esercito invincibile era riuscito a soggiogare le più grandi potenze del tempo senza mai mostrare un briciolo di umanità, si svela debole solo di fronte all’amata Zenocrate, figlia del sultano d’Egitto e sua prigioniera. La narrazione procede a ritroso presentando il personaggio negli ultimi istanti prima della morte e da lì ripercorre tutta la sua vita costellata da trionfi, fino all’ultimo atto in cui sarà un’irrazionale paura a prendere il sopravvento mentre un’inedita pietaslo coglierà durante l’uccisione del figlio.
Pirrotta costruisce la figura di Tamerlano superbamente, attingendo al registro più basso della voce intanto che la sua possente figura campeggia al centro del palcoscenico; lì immobile mentre il racconto procede o pienamente partecipe è un concentrato di cattiveria, raramente affiora in lui uno spiraglio di sentimento sempre contenuto ma forte. Anche il resto degli attori si riappropria dello spazio in un contesto scenico dal gusto minimale nel quale le luci tratteggiano l’oscurità del campo di battaglia e della prigione intanto che la scenografia delinea nuovi margini. Nei dialoghi i personaggi non sono sempre disposti l’uno di fronte all’altro ma occupano piani diversi, forse a sottolinearne le differenze interiori e di status. Alla parola viene restituita la sua essenzialità, è chiara e cristallina, mentre le musiche di Andrea Rocca amplificano le emozioni. Un’operazione di qualità, nonostante la disomogeneità interpretativa del restante cast, la cui carica è legata alla volontà di riprendere un testo classico cercando nel tema di fondo un collegamento nel tempo.
Laura Cavallaro