Trieste, Teatro Stabile Sloveno, Sala Principale, 16-18 marzo e 6-8 aprile 2018
La locandina di questa curiosa e allegra produzione recita: “adattamento a cura della compagnia” del Teatro Stabile Sloveno di Trieste.
Sul programma di sala la dramaturg Eva Kraševec scrive: “La nostra messa in scena è incentrata sul rapporto tra le convenzioni sociali e le diversità. La bisbetica rappresenta essenzialmente l’indomita diversità del disadattamento – quella diversità che genera, nel mondo contemporaneo, una grande paura.”
Non si tratta, in entrambi i casi di mere dichiarazioni di facciata puramente formali e prive di sostanza, anzi: sono elementi che descrivono perfettamente quel che lo spettatore può cogliere, a partire dal prologo recitato dall’ubriacone Christopher Sly (Andrej Rismondo) che, subito dopo averlo concluso, si accomoda su uno scranno signorile per assistere in modo partecipe e assieme al pubblico allo spettacolo recitato da sei attori, alcuni dei quali interpretano più ruoli.
Non è semplice proporre oggi “La bisbetica domata” senza cadere nella trappola ideologica, trasformando Caterina in una proto-femminista. D’altra parte, una lettura pedissequa del testo shakespeariano sarebbe del tutto fuori luogo e, in fondo, ne tradirebbe lo spirito infastidendo anziché divertire in modo intelligente.
Sul grande palcoscenico della sala principale un sipario dalle dimensioni ridotte è sorretto da una struttura leggera; vi è riprodotta l’immagine del Teatro Olimpico di Vicenza. Davanti ad esso troneggia un tavolaccio a scacchiera 6×6 sul quale sono disposte sei sedie anonime che presto verranno spostate ai lati, fuori da esso.
Si tratta di uno spettacolo corale la cui freschezza è data da una complicità instauratasi fra gli attori che è talmente palpabile da trasmettersi quasi fisicamente alla platea.
Caterina (Tina Gunzek) è la pecora nera, un ruolo tattico che la giovane ha deciso di giocare per distinguersi dalla più quieta e molto più strategica sorella minore Bianca (Iva Babić). Con sempre maggior rabbia la maggiore estremizza sempre di più l’etichetta che si è imposta fino a trasformarla in un rigido ed estremamente prevedibile stereotipo e a restarne così intrappolata, perdendo di fatto la libertà che aveva in origine sperato di ottenere.
Paradossalmente sarà proprio Petruccio (Tadej Pišek) ad aiutarla ad uscire da questa sua gabbia che, come in un racconto di Edgar Allan Poe, si fa stretta in modo insopportabile e vi riesce usando, come da copione, lo stesso linguaggio e comportamento da lei adottato.
Il miracolo nascosto in questa lettura avviene nella quinta scena del quarto atto. Se nell’originale Petruccio impone a Caterina l’accettazione passiva della sua prospettiva costringendola ad ammettere che il sole è in realtà la luna, qui il dialogo iniziato come una movimentatissima e comica lotta all’ultimo sangue si ricompone trasformandosi in uno scambio alla pari poetico e struggente di grande bellezza in cui ora è l’uno, ora è l’altra a decidere per entrambi quale sia la natura della luce che in quel momento li illumina.
Il padre Battista (Vladimir Jurc) potrà così far sposare Bianca con Lucenzio (Jernej Čampelj) che tra i numerosi pretendenti lei stessa aveva preferito, lasciando a bocca asciutta il vicino Ortensio (Ilija Ota) che si consolerà con una ricca vedova da tempo desiderosa di accasarsi con lui.
La commedia si mantiene sempre su un livello leggero che mai scade nella volgarità in un turbinio dinamico, travolgente in alcune scene mentre in altre fa l’occhiolino alla contemporaneità.
Il gioco di specchi tra sonno e veglia o tra realtà e finzione iniziato con il prologo in cui Sly si domanda se sia o meno il ricco signore che gli hanno detto di essere, a sua volta sognante un’esistenza da poveraccio, resta sullo sfondo fino alla fine, lasciando al pubblico una bella sensazione di dolcezza e serenità.
Paola Pini