Sala Giuseppe Di Martino – Catania- 9,10,16,17,18, 28, 29, 31 Marzo- 13, 14,15 Aprile 2018
Osannato, rivisitato, stravolto, di tanto in tanto anche sottovalutato, il rapporto del teatro catanese con Nino Martoglio è sempre stato singolare, così come poliedrica fu la figura dello scrittore. Autore di un ricco repertorio teatrale siciliano, cantò il quartiere popolare della Civita, con i suoi personaggi, cui tentò, riuscendoci, di restituire valore letterario. Martoglio fu però molto altro, raffinato conoscitore dell’ambiente teatrale nazionale e non, attento produttore ma soprattutto straordinario sperimentatore. Aveva ideato, a Roma, il Teatro a Sezioni intanto che si avvicinava a un nuovo medium: il cinema. Nel 1914, infatti, diresse la pellicola “ ”, andata poi persa, che dà il titolo allo spettacolo di Fabbricateatro.
Nino Bellia, autore del testo, immagina il momento della morte del commediografo, precipitato tragicamente dalla tromba dell’ascensore dell’Ospedale Vittorio Emanuele, restituendo una nuova versione dell’accaduto: omicidio. Piombato all’Inferno, come un novello Dante, Martoglio (Giuseppe Carbone) incontra i suoi personaggi: Don Procopio (Cosimo Coltraro), nelle vesti di un grossolano Virgilio, Cicca Stonchiti (Sabrina Tellico) e la popolana (Cinzia Caminiti), emblema di quello strato sociale tanto descritto nelle sue opere. Al viaggio prenderà parte anche la famosa maschera di Peppinino, abilmente manovrato da Marco Napoli e dal padre Fiorenzo, che restituisce la voce a lui e al pupo del Demone. La discesa nelle viscere della città sarà l’occasione per fargli riacquistare la memoria, persa durante la caduta e per mostrargli le brutture, le oscenità, il marcio in cui Catania è finita. Giunti alla fine, Martoglio incontrerà come un doppio allo specchio Pippo Fava, altra personalità di spicco della città, giornalista scomodo ucciso dalla mafia e fervido scrittore di teatro. L’operazione drammaturgica di Nino Bellia si muove di pari passo con la regia di Elio Gimbo, intenta a restituire dignità alla figura di Martoglio e dei suoi personaggi, alle volte abusati dagli attori, soprattutto da Angelo Musco. Tentano di accostare la personalità dello scrittore a quella di Fava, dei quali rintracciano analogie nella vita, nelle opere ma anche nella morte. Lasciano intendere che quell’ombra che ha spinto giù Martoglio, troppo sveglio per finire a quel modo, sia il braccio violento della mafia, quella mafia negata da molti scrittori e politici, piaga che da secoli affligge la Sicilia. Non manca una critica feroce alla contemporaneità, a quella politica senza scrupoli che si nutre ferocemente dei sacrifici di tutti.
La sala Di Martino, che ospita lo spettacolo, è una stanza, non ha nulla che ricordi la canonica struttura teatrale; manca il sipario, il palcoscenico è all’altezza del pavimento, le poltrone sono panche di legno, come quelle che troviamo in chiesa, eppure i manifesti alle pareti, la cura per i dettagli, come i cuscini colorati, e l’accoglienza cordiale rimandano al clima delle cantine degli anni Sessanta, quando il teatro era un’emergenza, una necessità. La messa in scena in questo contesto è “alla buona”, semplice, le luci sono kitsch, colorate, l’unica scenografia sono dei praticabili, una scala, un angolino dove è seduta la popolana, eppure i canti della tradizioni intonati magnificamente dalla donna mentre prepara una vivanda, l’odore acre della cipolla, le battute in dialetto stretto di Peppinino ripescano sensazioni da una memoria collettiva che grida un senso di appartenenza. Gli attori sono veraci, Coltraro è folkoristico, eccessivo ma funziona; intenso e feroce nei panni di Mastru Austinu, dove si mostra al meglio; anche la Tellico tratteggia una Cicca fuori dai soliti cliché, avvolta nei leggings leopardati e nella pelliccia bianca, una donna all’apparenza forte ma nella quale prevale il timore e un reverenziale senso di rispetto; per finire con la saggezza sguaiata della popolana, che con sguardo attento osserva l’evolversi della vicenda, intervenendo con preziosi consigli. La scelta di usare i pupi a vista è vincente; il magnetismo e la bravura dei Fratelli Napoli viene sprigionata a ogni battuta e a ogni gesto. Inoltre è un modo per attualizzare e ri-mediare un’arte secolare, prezioso tassello della tradizione e della cultura siciliana. Carbone rende Martoglio una figura tutta d’un pezzo, uomo fiero, altezzoso, come probabilmente fu lo scrittore; con grande stupore si trasforma anche in Fava restituendone tutta l’essenza e la caparbietà. Avremmo preferito come sfondo delle immagini proiettate più coinvolgenti e rese in maniera migliore, magari attraverso il racconto, ma ciò che di fatto resta è un lavoro che vuole smuovere le coscienze sedate dei catanesi e condannare l’immobilismo a tutti i costi. Un teatro che di là della forma punta tutto sull’essenza.
Laura Cavallaro