Trieste, Politeama Rossetti – Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Porto Vecchio – Magazzino 26, dal 5 al 19 dicembre 2019
Presso la parte già restaurata del Porto Vecchio di Trieste, in alcune sale del Magazzino 26, è possibile assistere in questi giorni a uno spettacolo molto importante ideato dal Direttore del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Franco Però, primo inizio di un progetto dedicato a un lungo e lacerante episodio della storia della città.
“Triestini d’oltremare” racconta una storia vera, complessa e stratificata negli anni; una storia tenuta per lo più riservata, conservata nella memoria di tantissime famiglie triestine, custodita senza clamore e protetta con dignità nelle case dei parenti dei circa ventimila triestini che tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Sessanta del Novecento, ma in particolare tra il 1953 e il 1958, emigrarono.
Furono cifre molto alte per una città che contava allora circa 270.000 abitanti.
Andarono a cercar lavoro e fortuna in un altrove lontanissimo, oltreoceano, verso ovest, nelle Americhe, ma soprattutto verso un sud-est estremo: in Australia.
Alcuni di essi ritornarono, i figli di altri gestiscono con serenità una doppia appartenenza culturale e linguistica che li fa sentire equamente stranieri sradicati da una parte, e cittadini autoctoni dall’altra quando abitano una delle due patrie.
La messinscena si svolge lungo un percorso che si snoda lungo quattro sale disposte su due piani e in ognuna di esse si tesse una trama specifica arricchita da immagini provenienti dalla Fototeca del Comune di Trieste, variamente esposte.
Prima dell’inizio il pubblico viene dotato di cuffie per ascoltare alcune parti, guidato dall’inizio alla fine da Romina Colbasso e Andrea Germani, attori convintamente partecipi e ottimi curatori dell’evento.
L’allestimento coinvolge altri giovani: vi partecipano infatti alcuni allievi del Liceo Classico-Linguistico “Francesco Petrarca” e del Conservatorio Statale “Giuseppe Tartini”.
Un inquadramento storico-statistico è un utile prologo: permette di “pesare” il fenomeno, difficilmente comprensibile in modo stabile altrimenti, saturo com’è di componenti emozionali e di prospettive individuali, necessarie al pubblico per far propria l’esperienza di molti in un tempo a noi lontano, ma troppo parziali per cogliere appieno il senso ultimo di ciò che avvenne. Seguono estratti di testimonianze del tempo e attuali, letture o videoregistrazioni (curate da Erika Rossi), poesie e musica.
Partirono per mare in navi non nuove e stracolme di persone, con le famiglie a volte separate perché i passeggeri venivano divisi: uomini da una parte, donne e bambini dall’altra, spesso costretti a dormire stipati come sardine.
Le traversate duravano anche due mesi, con molti scali e una velocità di crociera bassissima.
Alcuni scelsero di chiedere la cittadinanza australiana, altri no.
La priorità era ovviamente trovare un lavoro stabile per potere accedere a un alloggio che fosse più dignitoso del campo profughi iniziale, nella speranza di raggiungere una stabilità economica tale da comprare una casa, o magari un terreno, su cui costruirne una, assieme a un’integrazione sognata fin dallo sbarco.
I primi lavori non specializzati: non si conosce la lingua e allora si raccolgono fragole oppure ortaggi, si costruiscono linee ferroviarie, si va in miniera.
La difficoltà linguistica si mescola con quella culturale: abitudini alimentari e regole sociali diversissime impongono di mettere in disparte ciò che lega alla terra d’origine, parti di anima conservate per le riunioni di connazionali o, meglio, di concittadini.
Le parole si distorcono, creando un grammelot curioso; il dialetto d’origine si fissa al tempo della partenza, mentre a casa si modifica. Chi ritorna, magari soltanto per un po’, non ci si ritrova più e chi accoglie riscopre termini dimenticati.
Nella terra promessa, tutto è alla rovescia: la guida a sinistra, il Natale d’estate, alimenti, comuni a casa, sono ora disprezzati.
Ma c’era qualcosa che legava nuovi arrivati e più antichi emigrati: la solidarietà: “ci si aiutava”, sempre.
Una fratellanza simile, molto simile alle ultime ore trascorse a Trieste poco prima di partire, quando le Rive della città che si aveva scelto di lasciare era gremita di gente: famigliari, amici, ma anche persone che attraverso loro salutavano altri già partiti, stringendo tutti in un ideale gigantesco abbraccio.
Sono tessere di un enorme mosaico costituente la memoria collettiva di una città frammentata che può trarre, proprio da questa sua speciale caratteristica, fonte di tanta sofferenza in epoche lontane ma anche vicine, l’energia necessaria per “costruire un mondo nel quale riconoscersi”.
Paola Pini