Cattive acque racconta la storia vera di Robert Bilott, avvocato ambientalista, che un giorno accetta di sposare la causa di un allevatore di un piccolo paese del West Virginia, stato dal quale proviene anche lui, per denunciare le numerose morti dei suoi animali dovute allo sversamento di un prodotto chimico sintetizzato in laboratorio (chiamato comunemente “Teflon”), altamente tossico, da parte del colosso chimico DuPont nelle acque di quel territorio: una sostanza che colpisce, negli anni, anche gli esseri umani, con tumori o malformazioni. La battaglia di Bilott contro la DuPont inizia diciannove anni fa, e ancora oggi non si è arrestata. È la battaglia atavica e biblica di Davide contro Golia, dove il primo è rappresentato dai comuni cittadini, dalle famiglie, dalla provincia americana, rurale, dei paesaggi sterminati e dimenticati, se non “usati”; e il secondo è invece il sistema monetario e del business, il fatturato come idolo, l’America delle grandi città, delle corporation e delle multinazionali, dei palazzi dei potenti e dei grattacieli lussuosi e altissimi. È una lotta impari, che qualcuno, tuttavia, deve pur lottare, come ci dice da tempo il Cinema di Clint Eastwood, per esempio, con i suoi eroi quotidiani e ordinari, ultimo dei quali Richard Jewell, visto nello splendido film omonimo. È quello che prova a fare Todd Haynes, con un’opera inusuale per la sua filmografia, accettando l’incarico affidatogli da Mark Ruffalo, produttore in questo caso, che nel film interpreta il protagonista con la solita dignità e scrupolosità.
Cattive acque è un thriller d’inchiesta duro, robusto, che non fa sconti, e lo fa con il linguaggio essenziale del Cinema, che Haynes padroneggia, da sempre, con grazia e fiducia. Il film è formalmente impeccabile e preciso, la macchina da presa di Haynes è sì rivolta a Bilott, spesso ce lo accosta in primissimi piani strettissimi, quasi a farci sentire il suo pensiero, o il suo respiro, sempre più ansioso e preoccupato, o, addirittura, i suoi silenzi; ma volentieri si scarta anche da lui, dal protagonista, si scarta dalla vicenda quindi, compie panoramiche per affacciarsi ai finestrini delle macchine, e ci mostra il mondo che scorre, letteralmente scorre, davanti ai nostri occhi, come un fiume, come un acqua cattiva, sporca, perché inquinata da un’umanità che si dimentica dell’essenziale, e tenta prevaricazioni di ogni sorta: un mondo appestato, che Haynes dipinge anche con atmosfere e sfumature horror. Scorre nel tempo questo mondo, scorre veloce, e spesso non riusciamo a fermarci a guardare veramente, restando indifferenti. Non ricordiamo. E la macchina da presa interviene anche in questo caso, con inquadrature a campo lunghissimo, e spesso dall’alto, di forte impatto, fermando quel fluire incessante, fermandoci a guardare, per ricordarci della bellezza che abita la nostra Terra, fotografata magnificamente dal solito impeccabile lavoro di un artista della luce come Edward Lachman. E ci ricorda i motivi per cui amarla e proteggerla.
Cattive acque è un film ambientalista. Attuale e preoccupante. Non ha immagini di repertorio, ma ha persone di repertorio: brevi camei racchiusi in veloci inquadrature delle persone reali che hanno combattuto questa battaglia come lo stesso Bilott e la moglie (nel film Anne Hathaway), o quelle che hanno subito nel loro volto le conseguenze dei danni dovuti a questo comportamento “criminale” portato avanti con serenità dalla DuPont. Un film morale e di denuncia che tenta di scardinare le nostre certezze nel sistema, che scardina tante sicurezze: una fiducia che si fa sottile fino a strapparsi, per ritentare una ricucitura solo dentro noi stessi, dentro ai nostri legami più stretti e negli affetti più cari. Dentro la bellezza. E lo fa anche grazie ad un Cinema così, necessario, diretto, puntuale. E per l’appunto bellissimo.
VOTO 8,5 su 10
Simone Santi Amantini