Notice: A non well formed numeric value encountered in /web/htdocs/www.corrieredellospettacolo.net/home/wp-content/plugins/td-social-counter/shortcode/td_block_social_counter.php on line 1176

“VOLEVO NASCONDERMI”, UN’ESPLOSIONE DI CINEMA

Data:

Esce nello stesso anno di Favolacce, Volevo nascondermi di Giorgio Diritti. In piena pandemia Covid, due film straordinari gridano l’urlo di sopravvivenza del Cinema, e del cinema italiano, di un’Arte che ci hanno fatto credere non indispensabile, e che invece ci è necessaria per non morire dentro, perché è “cibo spirituale”, come più volte ha sottolineato Elio Germano in qualche intervista, e che nel film di Diritti interpreta magistralmente e con un equilibrio magico il protagonista Antonio Ligabue. Due opere distanti per presupposti artistici, approcci linguistici, messa in scena, ma così simili nel raccontare un moto sotterraneo, nascosto, che da un lato logora e distrugge, dall’altro crea e grida animalmente. Un moto che spinge ad uscire dai margini, tornare al centro del palcoscenico, mostrarsi al mondo reale. Due film che fanno bene al Cinema e al cuore di chi ama il Cinema. L’ordine di grandezza dell’Arte è l’eternità: un passo avanti alla vita, una vittoria costante sulla morte.

Giorgio Diritti con Volevo nascondermi confeziona il suo film più maturo e riuscito, nel quale la sua poetica coraggiosa e radicale di un cinema povero, amatoriale, teso all’essenzialità della composizione filmica, incontra una precisione armonica, limpida e sincera della potenza estetica dell’inquadratura cinematografica. Volevo nascondermi sprizza Cinema da ogni poro. È la bellezza naturale del cinema, quella disarmante, quella più forte di tutto.

Il film racconta la vita del pittore emiliano Antonio Ligabue, chiamato Toni dai conoscenti, amici (pochi) e non amici (tanti): una persona singolare, torva, brutta, che vive una vita di derisione, scherno, di sofferenza; Toni si alza dal tavolo degli altri commensali per mangiare da solo, è un emarginato, che scopre di potersi esprimere attraverso la pittura, l’arte diventa il suo mezzo privilegiato per comunicare: lo ribadisce perentoriamente durante la sua vita che è la storia del film, “Io sono un artista”, come a voler sottolineare che quella è la sua essenza, non una professione, non un passatempo, no; l’arte non è per lui un qualcosa che si fa, ma un qualcosa che si è. Lui è un artista, lui è la sua arte: le sue tele sono un’esplosione cromatica che abbaglia e coinvolge.

È singolare quello che fa Giorgio Diritti con la macchina da presa. Al pari del suo protagonista, dipinge usando gli strumenti del cinema. Aiutato da una fotografia splendida di Matteo Cocco, Diritti affresca dei quadri magnifici, dentro cornici perfette. Questa follia, questa distorsione della realtà, questa incognita pazza che è la persona di Ligabue, viene incasellata dentro inquadrature quasi sempre simmetriche e precise, dai colori vivaci, accesi, belli, densi, che descrivono lo sfondo rurale della campagna emiliana, che Diritti conosce molto bene, e dal quale l’artista è come se si librasse: staccandosi rende la composizione del quadro ancora più bella. Il regista stesso diventa pittore: c’è un’inquadratura che spiega tutto questo, circa a metà film, quando Ligabue si trova davanti ad una tela bianca posta orizzontalmente sul cavalletto, e la macchina da presa la inquadra con un dettaglio, così da ricopre quasi interamente l’inquadratura: tela e schermo cinematografico coincidono; riempire una superficie bianca di immagini, di storie, di significati, diventa allora lo stesso processo artistico del pittore e del regista.

Se da un lato Antonio Ligabue si nasconde dentro sacchi bucati e sotto coperte logore, lasciando solo un buco per l’occhio per non perdere un contatto curioso con la realtà; se scompare dietro a elementi fisici, inferriate, finestre, muri decadenti; se vive ai margini della vita, fuggendo per esempio nella notte dalle mostre a lui dedicate, e ai margini dell’inquadratura, che a volte lo mostra in campi lunghissimi; il film, dall’altro lato, fa l’esatto opposto. Volevo nascondermi è un paradosso insito già nel titolo: perché è un’opera che sprigiona bellezza, che non si nasconde, ma emerge con potenza, che ha voglia di mostrarsi; è un film magnetico, coinvolgente, che cattura lo sguardo e lo educa alla contemplazione. Così come lo sono i dipinti di Ligabue, epifanie di forme e colori. È in questo contrasto che risiede il senso ultimo, e più bello, del film di Giorgio Diritti: repulsione e attrazione danno vita a quel moto sotterraneo che crea e grida. È in quei cavalli, che in un dipinto del pittore, si trovano sotto la pioggia, ma non vengono bagnati dalle gocce che cadono. Immuni da una vita di dolore e solitudine, liberi dallo sfondo in tempesta del mondo, potenti e aggraziati. Un po’ come l’artista. Un po’ come il Cinema.

Simone Santi Amantini

Seguici

11,409FansMi Piace

Condividi post:

spot_imgspot_img

I più letti

Potrebbero piacerti
Correlati