La città di Viterbo rappresenta il più vasto centro storico medievale d’Europa, con i suoi quartieri storici che sono stati utilizzati come set in numerosi film. Conosciuta anche come Città dei Papi, essendo stata sede pontificia e dove per 24 anni il Palazzo Papale ospitò e vide eleggere diversi Papi.
Viterbo è una città con un notevole patrimonio storico, architettonico e culturale, nonché una città termale. In questi anni, nonostante si stia attuando una politica finalizzata alla valorizzazione del centro storico e di tutti i siti di maggior interesse, al fine di favorire lo sviluppo della città dal punto di vista turistico, è ancora poca l’attenzione verso l’architettura urbana dei nuovi quartieri.
Oltre le mura antiche che racchiudono lo scrigno sospeso nel tempo, la città si è espansa, dapprima con abitazioni in linea con l’architettura storica, come le villette dell’inizio del ‘900 della zona Cappuccini nei pressi della Chiesa della Verità, poi con il passare dei decenni la modernità ha preso il sopravvento, spesso fagocitando aree storiche di periferia, come le deliziose chiese del XII secolo sparse per tutta la cittadina.
Proprio lo stridore della modernizzazione a tutti costi, senza riguardi per l’architettura storica, ha trovato nelle immagini di Andrea Danna, fotografo e docente di corsi di post-produzione, il punto d’incontro o di scontro, con il progetto ‘La Viterbo che cambia – Visioni urbane di epoche a contatto’, mostra tenutasi presso la Sala Ex-Almadiani .
La mostra rappresenta il primo di una serie di lavori sull’architettura e il paesaggio urbano che sono attualmente in fase di sviluppo, ed ha per oggetto scenari della città di Viterbo in cui si intrecciano architetture antiche e moderne, contrasti tra epoche che si sono venuti a formare col passare del tempo; il senso ultimo del progetto è di osservare lo scorrere dei secoli nella Città dei Papi attraverso un punto di vista particolare, quello del cambiamento del tessuto urbano.
Abbiamo chiesto al fotografo viterbese di raccontarci questo progetto e come Viterbo stia affrontando la modernizzazione urbana.
Cosa l’ha ispirata per il progetto ‘La Viterbo che cambia’?
È iniziata come un semplice esercizio fotografico di ricerca dei contrasti, ma poi mi sono innamorato dell’idea che questi contrasti architettonici non fossero solo un giochino fotografico fine a sé stesso ma che rappresentassero in qualche modo un qualcosa di più grande, ossia i segni del cambiamento di una città. Per questo ho intitolato la mostra “La Viterbo che cambia”: avrei potuto scegliere un titolo come “Viterbo: l’antico e il moderno” o qualcosa di simile che si limitasse a descrivere alla lettera quello che ho scattato, mentre con il titolo che ho scelto ho voluto veicolare la lettura della mostra in questo senso più ampio, un senso che tira in ballo un tema universale come il passare del tempo. Ecco, potrei dire che questo senso più ampio è quello che mi ha ispirato e che mi ha spinto a portare a termine il progetto. Non era solo un gioco fotografico, seppur affascinante, ma c’era dietro un significato. Dare questo titolo per me era come dire “ecco, questi sono i segni del passaggio del tempo nella nostra città”. Qualcosa di molto diverso dal semplice “guardate come sono vicini questi due palazzi di epoche diverse”.
Cos’è che l’ha maggiormente impressionata nella sua ricerca nei luoghi da fotografare?
Quello di cui mi sono reso conto grazie alla ricerca dei luoghi da fotografare (ed è la cosa che mi piace della fotografia di paesaggio urbano) è che raramente guardiamo con attenzione ciò che ci circonda, mentre nel periodo in cui giravo per la città sforzandomi di osservare, ho scoperto moltissime vedute e angoli che non conoscevo, e a volte bastava semplicemente alzare lo sguardo per vedere un nuovo punto di vista nel luogo in cui mi trovavo. È stato come scoprire un’altra volta la città in cui sono nato. È un’esperienza che consiglierei a tutti, ma capisco che il mio è stato un punto di vista per così dire privilegiato, perché di norma è difficile trovare dei momenti per mettersi a passeggiare col semplice scopo di guardarsi intorno; ma sono stato contento di averlo fatto a suo tempo, perché ad oggi non so se avrei ancora il tempo per farlo.
Secondo lei cosa rappresenta il bello negli edifici moderni che ha immortalato?
Non sono un architetto perciò parlo da non esperto del settore, tuttavia nelle mie foto ho cercato di accostare l’essenzialità delle linee e delle forme del moderno all’irregolarità e la ricchezza di dettagli dell’antico, perciò credo che il concetto di bello nell’architettura moderna sia legato più che altro all’armonia delle forme e delle linee, unita alla maggiore libertà di sperimentare soluzioni innovative rispetto al passato, caratterizzato invece da schemi più rigidi.
Pensa che si possa cercare di avvicinare l’architettura storica medievale viterbese con l’esigenza di crescita abitativa dei nuovi quartieri?
Credo che si potrebbe curare questo aspetto nei quartieri adiacenti a quelli storici, in modo da non farci trovare di fronte a dei contrasti eccessivi e di gusto discutibile. Intendiamoci, nella mia serie di foto non è implicita una critica, ed anzi ho fatto di tutto per cercare di far capire che si trattasse di un’operazione meramente artistica e non di denuncia. Tuttavia è innegabile che alcune delle mie foto siano state realizzate grazie, per così dire, ad alcune scelte urbanistiche del passato non esattamente azzeccate.
Da viterbese, cosa pensa del modo in cui la città vive la modernizzazione urbana?
A mio modesto parere la modernizzazione in questa città viene a volte vissuta con eccessiva nostalgia e rimpianto, mentre penso sia sbagliato rifuggire ad ogni costo il moderno, in nome di una tradizione antica che è giusto che ci sia, ma che non può condizionare le scelte urbanistiche di una città di quasi 70.000 abitanti e che quindi si estende ben oltre il centro storico.
La città può mantenere benissimo le due anime, quella antica e quella moderna: l’importante è rispettare gli spazi reciproci e che le due cose non si mischino.
Qual è il suo soggetto fotografico preferito?
In quanto fotografo professionista, teoricamente dovrei cercare di saper tirare fuori il meglio da qualsiasi tipo di soggetto, tuttavia ho delle preferenze personali. Lavorare a questa mostra in particolare mi ha fatto sviluppare l’interesse per la fotografia di paesaggio urbano ed il perché è presto detto: la città è un insieme di realtà diverse che si intrecciano a vicenda e nella varietà di situazioni e nell’apparente casualità in cui queste si sovrappongono a volte si può trovare un ordine, un significato di volta in volta diverso. Trovarlo e fermarlo in una foto è qualcosa di bellissimo. E d’altra parte, quello di trovare dei significati nella casualità del mondo, trovare un ordine nel disordine, non è forse l’essenza più pura della fotografia? Per me lo è, e per questo la fotografia cittadina mi appassiona.
Cosa preferisce usare: Bianco e nero o colore? Digitale o analogico?
Cerco di usare il bianco e nero o il colore a seconda del tipo di progetto a cui sto lavorando: in alcuni si addice di più il colore, in altri il colore può essere una distrazione che è meglio eliminare, in modo da concentrarsi solo su forme e contrasti.
Ad esempio ne “La Viterbo che cambia” il colore era necessario, perché l’ho usato per connotare le identità di antico e di moderno. In molte delle foto, infatti, la componente antica è caratterizzata da tonalità calde, mentre quella moderna è caratterizzata da colori freddi, come il blu e il bianco. Far corrispondere ad ogni entità una determinata luce non è stato sempre facile, infatti c’erano altre foto che poi non ho inserito nella mostra poiché il colore della luce non era corrispondeva al giusto soggetto, facendo perdere il senso del contrasto. Mentre invece ho mantenuto le foto in cui il contrasto del colore dell’illuminazione andava di pari passo col contrasto tra antico e moderno e quindi ne favoriva la lettura.
Riguardo il digitale o analogico, io sono nato -fotograficamente parlando- col digitale, e tuttora ne sono entusiasta, perché offre possibilità incredibili rispetto all’analogico, e non mi riferisco solo alle possibilità di fotoritocco, ma anche a ciò che si può fare proprio in fase di scatto. L’analogico l’ho usato solo alla scuola di fotografia che ho frequentato, usavo sia una Hasselblad medio formato sia il banco ottico. È sicuramente molto istruttivo, e serve molto alla formazione, ma poi ti rendi conto che non è qualcosa che puoi mantenere nella quotidianità, soprattutto se lo fai come professione.
Qual è stata la foto che l’ha fatta innamorare?
Se intende la foto che mi ha fatto innamorare di questo progetto, è stata quella con la cupola di Santa Rosa che si rispecchia nelle vetrate dell’edificio moderno. Quando l’ho fatta, era la prima foto di questo progetto che non fosse semplicemente un antico banalmente accostato ad un moderno, ma era uno dentro l’altro sfruttando un riflesso, il che portava la foto ad un gradino di creatività un pochino più alto rispetto alle altre. Allora ho cestinato tutte le immagini precedenti che avevo scattato poiché troppo semplici, e da quella foto sono partito per creare dei giochi di interazioni tra antico e moderno che non fossero il banale accostamento tra i due. Infatti nella mostra troviamo diversi modi in cui l’elemento antico viene a contatto col moderno, tramite riflessi, silhouette, o associando esterni con interni, giochi geometrici con diagonali o edifici disposti simmetricamente: insomma, quella è la foto che ha fatto fare il salto di qualità al tutto.
Unico rammarico, quello di non aver mai trovato un antico che proiettasse la propria ombra su un edificio moderno o viceversa, era qualcosa che volevo molto ma non sono riuscito a trovare un esempio di questo tipo di foto in cui le due entità fossero chiaramente identificabili.
Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Ho in mente una mostra sempre di paesaggio urbano, ma ambientata ad Orvieto, con una differente chiave di lettura. In realtà attualmente sono solo pochi scatti ed è nel cassetto da un bel po’, ma non riesco mai a trovare il tempo per concluderla. Vedremo.
Laura Scoteroni