Non ha bisogno certo di presentazioni, una carriera incredibile, partita dal balletto classico, passando per la televisione ai tempi di Don Lurio, per dedicarsi, ormai da a anni, alla danza contemporanea; incontriamo Roberto Zappalà in occasione del suo Rifare Bach, in scena all’interno del Festival MilanoOltre al Teatro Elfo Puccini di Milano.
Rifare Bach, cosa puoi dirci? Come ti è venuta l’idea, com’è rispetto ai tuoi lavori precedenti?
Rifare Bach si allontana molto dai miei ultimi lavori, dove c’è un po’ più di attenzione nei confronti di una drammaturgia un po’ più studiata, più pensata, più scritta, per certi versi ancora più sociale, anche se anche questo ha dei riferimenti molto importanti, non solo sociali ma anche molto attuali. Mi sono allontanato un po’ con piacere dagli ultimi cinque-sei anni, con questo ritorna un po’ il mio amore iniziale, cioè quello di un lavoro di impostazione classica inteso come impostazione del lavoro della costruzione coreografica, non del linguaggio: è intrisa di duetti, trii, quartetti, ensemble, in questo senso ha una costruzione classica, dove l’insieme, il dettaglio di un gruppo di danzatori per me è stato importante, avevo voglia di fare questo, quindi in questo senso si è allontanato moltissimo. Nasce per due questioni: uno, per l’amore infinito che ho nei confronti di Johann Sebastian Bach, poi perché questo è nato un mese prima dell’inizio del lockdown. Eravamo a Lyon, ed in quel momento si iniziava a parlare, erano i primi di febbraio, in realtà non era accaduto niente, c’erano uno, due casi a Milano e basta. A Lyon si diceva che in Italia stava accadendo questo. Siamo tornati in Italia e dopo vento giorni era esploso tutto, e quindi anche noi, come tutti, siamo rimasti rinchiusi. In realtà il mio lavoro era già iniziato, avevo fatto un buon venti minuti, ed avevo iniziato già con delle atmosfere da fiaba quasi, da bosco, da Cappuccetto Rosso, con questi uccellini ce si sentivano, rumori della natura, gufi, più la musica di Bach. Tutto questo è esploso in maniera esagerata con quei tre mesi di lockdown, dove ho avuto la fortuna di vivere nella mia campagna, che è sul Parco dell’Etna: un ettaro di ulivi, di vigne, più un bosco… Immaginatevi che silenzio ho ricevuto dalla natura in quel momento, e si sentivano tutte queste atmosfere vere. Tutto questo, dopo una anno, quando ho ricominciato a lavorare, si è acuito moltissimo: ecco, questa è stata la genesi del lavoro, seppur era già partito con questo presupposto. L’idea era quella di collocare Bach all’interno di un meccanismo musicale intriso di rumori della natura perché secondo me Bach può rimanere utile, piacevole e quindi non disturbare in qualsiasi momento della giornata, persino in un bosco dove è piacevole magari sentire i silenzi, oppure i rumori, della natura. La natura sicuramente non può collocarsi fra i luoghi di disturbo ambientale; c’era quindi questo intreccio, questo filtro, questa idea di comunione degli ascolti che mi affascinava molto. Poi è esploso tutto il mio piacere di costruire, sono un coreografo di movimento, mi piace costruire; a volte facciamo anche delle improvvisazioni, ma saranno un 15%, anche perché il danzatore va coccolato, è sempre obbligato, c’è sempre un po’ di nevrosi poi quando si va in scena; d’altronde il mio stile ed il mio linguaggio si chiama MoDem, la mia tecnica si chiama così, e quindi Movimento Democratico, quella parte ci democrazia non c’è solo quando studiamo, ma anche quando mettiamo in pratica tutto il processo creativo.
Quanti danzatori sono?
Erano dodici, in realtà siamo rimasti dieci per colpa del Covid, due sono stranieri e sono rimasti all’estero, non hanno potuto muoversi per fare le prove… Ma siamo tanti lo stesso.
Com’è stato ritrovarli dopo il periodo di fermo obbligato che ci hanno imposto?
Ci siamo comunque sentititi spesso. Sono stato corteggiato da alcune città americane per fare dei lavori in streaming, fatti appositamente per lo streaming, ma sinceramente ho sempre un po’ rifiutato questa idea, anche parlandone con i miei danzatori. Non volevo essere fra quelli che facevano vedere il solito salotto di casa, o la cucina, come hanno fatto molti; credo e spero che questa cosa non abbia mai un futuro, noi, rispetto alla musica, abbiamo una grande fortuna, quella di avere il corpo umano che non si può riprodurre come la musica; credo che con la danza sia proprio diverso, motivo per cui non abbiamo mai momenti promozionali importanti, soprattutto la danza contemporanea. Per esempio in televisione il contemporaneo non funziona, ha dei ritmi, un approccio, a partire dallo sguardo, che non è adatto al cono della cinepresa. I lavori contemporanei devono poi essere ripresi in un certo modo, altrimenti non rendono, ma è anche viceversa: la danza della televisione in teatro funziona meno. Alla fine la danza contemporanea deve mostrarsi alla società come l’arte più abbracciante, più accogliente, aperta: e così è stato. Può dare moltissimo alla società sotto l’aspetto creativo, e poi si deve dare la libertà agli artisti di fare quello che vogliono, poi è il pubblico a decidere, scatta il gusto personale. Quando c’è qualità, si può accettare tutto, dovrebbe essere un valore per tutte le discipline ed i lavori.
E’ la prima per Milano di Rifare Bach. Hai già debuttato?
Sì, a Napoli, al Campania Teatro Festival, una settimana fa. E’ ancora da rodare, può migliorare sotto l’aspetto della cura dei dettagli, che il pubblico non vede ma che io vedo. Abbiamo già tante piazze, in Italia facciamo Modena, Trento, Perugia, insomma tante. Essendo basati in Sicilia, io giro, la compagnia pure, al momento ho quattro produzioni diverse in giro, ma non riusciamo in realtà di fare una bella tirata unica della stessa produzione di trenta-quaranta date: due una volta, una un’altra, insomma, per noi che facciamo sali e scendi… Non c’è la volontà di farlo, il 90% dei Festivals sono da Roma in su, i costi per noi sono quindi molto alti, e da parte dei programmatori non c’è la volontà di creare un sistema per mettere insieme i festivals; stagioni di danza ce ne sono poche… Il nostro problema è essere distanti.
Chiara Pedretti