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La Calisto, il ‘600 veneziano al Teatro alla Scala

Data:

Dal 30 Ottobre al 13 Novembre 2021

Ne è passato del tempo, da quando alla fine degli anni ’70 comprammo con stupita curiosità l’edizione de La Calisto incisa da Raymond Leppard, grazie al quale aveva preso il via la Cavalli renaissance. La Calisto, dopo le fortunate rappresentazioni del 1970, festival di Glyndebourne, incontrerà una costante fortuna, tanto da superare quella ricevuta al debutto, nel 1651 al Teatro S. Apollinare di Venezia. Era questa una delle varie sale teatrali fiorite nella città lagunare, in contrapposizione fra loro, dopo la felice apertura del Teatro di San Cassiano, primo teatro pubblico destinato all’opera lirica. Il soggetto a sfondo mitologico è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, sullo splendido libretto di Giovanni Faustini. Su un ordito di travestimenti e inganni, fondamenti base dei melodrammi seicenteschi veneziani, s’innesta la seduzione della bella Ninfa Calisto da parte di Giove, sotto le sembianze di Diana, ma anche le pene d’amore di Endimione e della vera Diana. Un intreccio fra Dei e semidei con gli umani, che assume in più punti caratteri grotteschi e satirici. Faustini non è tenero con queste divinità che, lasciate da parte tratti idilliaci e idealizzati, si mostrano dominati da passioni e inganni peggio delle creature umane. Il Teatro alla Scala mette in cartellone, per la prima volta, La Calisto di Cavalli, una nuova produzione affidata al regista David McVicar e avvalendosi della competenza, storicamente informata, di Christophe Rousset, fondatore de Les Talens Lyriques che ha optato di arricchire l’organico strumentale (senza tradire lo spirito originale del compositore) per meglio sostenere le voci dei cantanti, nella vasta sala del teatro milanese, aggiungendo brani di altra opera di Cavalli per i balli.
Nel tempo trascorso, quello che era un impegno filologico assurto al dogma di tendere e ricreare l’opera come qualcosa di unico e statico, immutabile nella sua supposta perfezione, si è stemperato nella comprensione che ogni testo teatrale vive nel momento contingente in cui è stato creato. Volerlo proporre com’era stato creato è utopistica chimera, proprio nella considerazione che l’effimero genere teatrale (ancor più l’opera), vive per quelle uniche e specifiche rappresentazioni, per cui impossibile da ricondurre a un’univoca, immutabile partitura. Si dovrà però riconoscere come il valore di quei tentativi operati negli anni ’70 e oltre, siano stati altamente meritorio, per aver portato alla riscoperta di un repertorio musicale completamente obliato. La strumentazione moderna è oggi inaccettabile, ma solo perché la nostra sensibilità, modellata dall’abituale ascolto di ben altro repertorio, si è abituata a considerare quale dovesse essere l’organico orchestrale originario, che al Teatro S. Apollinare, uno dei più piccoli della città veneziana, fu per La Calisto di soli sei strumentisti. Il regista David McVicar s’immagina l’opera quale sogno di un osservator delle stelle, un intellettuale che in ricca biblioteca seicentesca ha ricreato un osservatorio del cielo (scene di Charles Edwards), in linea con una concezione che quest’opera sia un cammino interiore: ne consegue che gli esterni (Rob Vale), stilizzati quanto generici della vicenda, siano lasciati sullo sfondo, dietro grandi finestroni della rotonda sala. Doveva essere questo il clima che si respirava a Venezia a metà seicento, dove la Repubblica, fiera della sua indipendenza non solo economica ma di pensiero, dava corso a un sapere illuminato e libero contro pregiudizi reazionari. Non si disdegnano “macchine volanti” e artifici teatrali di botole, in una fantasmagorica allegoria visiva che tende con troppa insistenza a mettere in primo piano ogni aspetto provocatorio della sessualità, con tratti a volte grossolani, quando già l’opera spira sensualità nel libretto (Un certo dolce che dir non so…) e nel tessuto orchestrale. McVicar, con regia movimentata, agitata da salti e corse di mimi esagitati, sfrutta la scena fissa Charles Edwards che si protende in un praticabile che abbraccia la compagine orchestrale. Doey Luthi disegna costumi “fantastici” in un originale mix di stili occhieggianti anche alla Osiris, nelle gran piume di Giove, con ostentazione di parrucche da Re Sole e gorgiere e gran colli inamidati per Giunone, accessoriata di originale borsetta. Christophe Rousset, specialista del repertorio, dirige con attesa proprietà stilistica l’Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici e Les Talens Lyriques, avvalendosi di un “continuo” curato ed estroso; la compagine orchestrale così formata è guidata in modo eccellente e con malioso dosaggio degli effetti timbrici. Lodevole l’accompagnamento delle voci, di un cast che mostra grande omogeneità e gran cura nella dizione. Chen Reiss, Calisto voce lirica ben sfogata in alto, canta con intelligenza e ricchezza d’inflessioni e accenti dando piena caratterizzazione del personaggio nelle arie. Olga Bezsmertna, offre a Diana un timbro più scuro, tradisce la fissità di note di una scuola di canto non italiana; rilevante per eloquenza d’accenti, si disimpegna con spigliatezza e viva decisione in scena. Luca Tittoto è Giove di voce grave e ben impostata, pur non sempre impeccabile nelle fioriture; credibile attore. Il controtenore Christophe Dumaux, Endimione, nonostante una voce carente al centro e in basso e dal timbro non particolarmente affascinante, sfrutta il penetrante registro acuto e la partecipata interpretazione per delineare un credibile amante. Markus Werba cui veramente si addice il termine mercuriale, è un Mercurio che mostra buona voce e bel timbro ma ancor più l’intraprendenza scenica, che gli fanno perdonare le intemperanze nella linea di canto. Veronique Gens è una Giunone dalla voce un po’ logora e dal timbro opaco che spinge sugli acuti; imponente nel portamento, regala alla dea tratti di velenosa ieraticità. Chiara Amarù è Linfea, mezzosoprano come previsto da Cavalli, troppo facilmente arrendevole alle voglie amorose, tanto da farci rimpiangere l’effetto spiazzante di un tenore en “travesti”, cui in fondo anche Monteverdi ci aveva abituato. Federica Guida, Furia/Eternità voce educata, un po’ esile e puntuta ma pur efficace, Svetlina Stoyanova, Furia/Destino voce piena e brunita di mezzosoprano che si disimpegna bene in ambo le parti. John Tessier presta a Pane/Natura voce di tenore dal timbro caldo e dagli accenti accorati e convincenti. Damiana Mizzi, è un Satirino dotato di strumento vocale leggero, come la sua ” giovane coda”, ma piena di vitalità. Luigi De Donato, Silvano dal costume eccessivo, mostra voce opaca. Spettacolo godibilissimo che lascia l’amaro nel vedere la sala del Piermarini riempita neppur per la metà, così come ci tramandano le cronache fu La Calisto al suo apparire sul palcoscenico del S. Apollinare veneziano. Successo caloroso, con punte di entusiasmo per la protagonista Chen Reiss e per il Direttore Christophe Rousset.
Recita del 2 novembre.

gF. Previtali

 

ph Brescia e Amisano

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