Teatro alla Scala, recita del 13 marzo 2022
Privata dalla defezione (causa conflitto in corso) dell’attrattiva di ascoltare l’atteso direttore moscovita Valery Gergiev, è andata in scena al Teatro alla Scala una pregevolissima edizione di Pikovaya dama (La dama di picche). Uno spettacolo d’innegabile impatto teatrale, che ha avuto nell’eccellenza della resa musicale e nella compatta omogeneità del cast, il suo punto di forza Sul podio scaligero è salito il suo assistente, Timur Zangiev, che aveva iniziato il lavoro di preparazione dell’Orchestra milanese assente Gergiev. Pikovaya Dama o la Dama di picche, opera in tre atti basata sull’omonima novella di Pushkin, fu rappresentata per la prima volta al Teatro Mariinsky di San Pietroburgo il 19 dicembre 1890. Il libretto della sua ultima opera completa, gli giunse tra le mani in maniera fortuita: suo fratello Modest aveva scritto il testo per Nikolai Klenovsky – allievo di Čajkovskij – che lo rifiutò. Inizialmente il musicista russo mostrò scarso interesse al soggetto, nonostante la sua immaginazione fosse stata catturata dalla novella di Pushkin. Il libretto differisce in molti punti dalla novella, soprattutto nella relazione tra Lisa ed Hermann, in cui il protagonista è guidato da pura avidità e usa Lisa come un mezzo per arrivare alla Contessa e al segreto delle tre carte, che gli assicurerà il successo al tavolo da gioco. Non c’è amore, e Lisa non si affoga. A Čajkovskij non piaceva l’idea di un finale interamente al maschile, e inserì la drammatica scena tra i due amanti, sul Canale d’Inverno. Verso la fine del 1889 lavora febbrilmente alla composizione, tanto da esclamare: “Ho messo tutto me stesso in questo lavoro “, componendo La Dama di Picche in soli quarantaquattro giorni. In una corrispondenza col fratello scriverà “… Quando arrivai alla morte di Hermann, e al coro finale, fui improvvisamente sopraffatto da un’indicibile compassione per lui e iniziai a piangere in maniera disperata…Mai avevo pianto su un personaggio di una mia opera prima d’ora…Penso che il sentimento provato per Hermann, sia riverberato positivamente sulla musica: credo che La Dama di picche sia un’opera eccellente; staremo a vedere l’esito che gli sarà riservato“. Čajkovskij, raramente contento dei suoi lavori, valutava in maniera molto positiva la nuova partitura, non esitando a porla in cima all’elenco delle sue creazioni. Al Teatro alla Scala la defezione del Maestro Gergiev, in un repertorio che gli è particolarmente congeniale, è stata felicemente rimpiazzata dal Maestro Zangiev che fin dall’introduzione ha mostrato di aver saldamente in pugno il fluire della tessitura Čajkovskiana: dall’iniziale accorata “larghezza”, che si trasforma in energico piglio a dispiegare la fantasmagorica tavolozza creata dal musicista russo. Il direttore punta a narrare il dramma di un’ossessione, quella di Hermann, senza trascurare i momenti lirici, di forte emozione. Ha staccato tempi turgidi senza perdere l’intensità dell’abbandono e delle espansioni liriche (aria di Liza I atto), ponendo l’accento sulla miseria e tenebrosità del sentire di Hermann e la mefistofelica figura della Contessa. Travolgente nel primo duetto tra Liza ed Hermann, in tensione sempre più incalzante e al tempo stesso di ineluttabile fatalità, si allarga in calmo ritmo a veleggiare verso il finale dell’atto, in un trionfo di suono che soggioga il pubblico. Nel preludio rende livido il “ronzio” degli archi, espressione del terrore sbandato che sovrasta il protagonista, nella stanza della Contessa. Il suono orchestrale si fa allucinante nel dormiveglia del III atto, espressione del suo tormento interiore, per diventare drammatico nell’incontro finale con Liza. Dopo la parentesi chiassosa della sala da gioco raggiunge il culmine con lo struggente finale del coro, catarsi di un’anima maledetta. Orchestra scaligera in gran spolvero. Coro del Teatro, diretto da Alberto Malazzi, semplicemente mirabile, raggiungendo incantevole magia nella perfetta resa di piani e pianissimi, d’incisività e pathos unici. Hermann era Najmiddin Mavlyanov, voce di tenore dal timbro un po’ ruvido, non particolarmente affascinante, ma che ben si addice alla sulfurea personalità del personaggio; capace di squillo che usa sempre a fini espressivi, non teme i salti di ottave dell’ostica tessitura, giungendo in parte provato alla fine dell’opera. Mavlyanov trova nella variegata interpretazione il punto di forza, sapendo essere interprete penetrante e credibile nel tormento amoroso quanto nella smodata sete di denaro. Valido attore dalle espressioni spiritate di anima tenebrosa che si trascina anche alla “festa”; nelle proteste d’amore mostra un fascino perverso e pur appassionato. Morbosa la sua sensibilità, che troverà pace solo nel tremendo finale. Liza era un’intensa Asmik Grigorian, di elegante e malinconica presenza. Voce di soprano di limpido timbro, ben proiettata, domina l’impervia tessitura; lirica e toccante nel duetto con Polina, la partecipe Elena Maximova che si fa valere nella malinconicissima romanza seguente. La Grigorian sferra un’incalzante discorsività nel palesare lo stato interiore, grido di un’anima lacerata. Dolorosamente angosciata nell’amaro rimpianto, che per un attimo trasmuta nel lirismo del secondo duetto d’amore con Hermann: ma è un’illusione. Lui è perduto, non le resta che la morte. Il principe Eleckij Alexey Markov si fa notare per il luminoso e ricco timbro. Intenso nell’incontro iniziale con Hermannn ma soprattutto nella sua aria, dai toni velatamente disillusi quanto accorati, della confessione dei suoi sentimenti per Liza. Il conte Tomskij il bravo Roman Burdenko, misterioso nel racconto della leggenda della Contessa è riluttante e vanaglorioso nell’impersonare Zlatogor alla festa. Alla Contessa prestava voce il timbro brunito del mezzosoprano Julia Gertseva (Polina nell’edizione del 2005), voce ancor pastosa pur oscillante, come l’andatura, a meglio caratterizzare l’enigmaticità della vecchia dama. Completamente immersa in nostalgica rievocazione del glorioso passato, tanto da riapparire quale fantasma in pose da femme fatale, in quel bianco abito di ascendenza liberty. Precisa attrice e sagace interprete, nello straniante canto a mezza voce. Maša/Prilepa era Maria Nazarova dal timbro sopranile argenteo, affettuosa Maša e svettante Prilepa. Tutte da lodare infine le “seconde” parti: La governante Olga Savova, Milovzor Olga Syniakova, Čekalinskij Yevgeny Akimov, Surin Alexei Botnarciuc, Čaplickij Sergey Radchenko, e Narumov Matías Moncada. Ottima la regia di Mathias Hartmann, teatralmente giocata sulla cura di ogni personaggio nel focalizzare la tensione di sentimenti in relazione con gli altri: il turbamento degli animi, nel quintetto del I atto, è reso en ralenti. Risolve con intensa semplicità di mezzi, ma d’effetto, le scene topiche: il suicidio di Liza, lo spettro della Contessa e la tragica fine di Hermann. Bastano delle luci per un temporale, un ingresso a ritroso delle cameriere nella stanza della contessa, per la cieca subordinazione. Discutibile l’introduzione del Maestro di cerimonie. Scene essenziali di Volker Hintermeier, astratte ma di pregnante atmosfera, che trovano i migliori momenti nella spoglia scena iniziale, nella minimalista stanza di Liza e nel finale della Sala da gioco. Più confusionaria la festa da ballo, con troppi spunti che finiscono per sovrapporsi. Pertinenti costumi di Malte Lübben che spaziano dai cappottoni degli uomini ai bianchi merlettati e trasparenti vestiti di Liza e amiche per trasportarsi nuovamente al nero nelle scene tragiche. Preziose luci di Mathias Märker nell’evocare tempi e stati d’animo; modeste le coreografie di Paul Blackman. Trionfo finale, costellato da acclamazioni per la Grigorian, Mavlyanov e il Direttore Zangiev.
gF. Previtali Rosti