Autorevole voce quella di Fernando Grignola, non solo del Ticino di cui figlio si adopera nel richiamo ad una cultura attenta al dialogo incessante tra le generazioni. Poesia allora la sua (classe 1932) nel dialetto di Agno fedele ad una presenza attiva della memoria lo sguardo rivolto ad un presente di cancellazioni, di svuotamenti, di tagli soprattutto in relazione a un rapporto con la natura non più centrale se non nell’infida accettazione del suo sfruttamento. Dunque esemplare figura potremmo dire, coraggiosa sempre quella di quest’instancabile novantenne, autore (anche in prosa) e regista e produttore del Radioteatro Popolare Dialettale Rsi di Lugano, curatore tra l’altro di antologie poetiche in dialetto ticinese (si veda Le radici ostinate, Armando Dadò, 1995). Ma è in poesia come dicevamo che il perché della sua scrittura va a imporsi con maggiore forza tra eticità e spiritualità del dettato, meritevole del premio Shiller (1988) per la Letteratura italiana, e in Italia del Biagio Marin (“Proteso nell’ascolto, si avvicina alla realtà del mondo, a Dio. Ed è così la che grazia di essere poeta trascende il valore di sacra presenza in mezzo agli uomini”- secondo la motivazione di Franco Loi). Numerosi i titoli (di cui si guardi per una iniziale conoscenza almeno a Paròl biott– Parole nude– del 2016 nella cui parte finale si accompagnano, a riprova di un’attenzione vivissima, alcune composizioni in abruzzese di Pietro Civitareale tradotte in ticinese) a dire del mondo entro una piccola parcella di terra la rivendicata prossimità degli ultimi, tra gli ultimi nella sacralità di una ruralità d’appartenenza che dice del mondo stesso la sua umana provenienza e insieme dell’uomo la sua fatica, ed il suo amore nell’umile disposizione ad una terra, di quella terra di cui si fa, resta servo. Questo il nucleo da cui ogni riflessione scaturisce giammai nel pantano di un passato nella sclerosi del senso ma nel riattivato senso di un presente decurtato di una direzione che avendo spinta e origine lontana ancora urge, ancora semina.
L’atto di accusa è contro tutto quel sistema di sopraffazioni -sociali, economiche, disvaloriali- che fanno della comunità umana, di ognuno, un avanzo, preda/prede di giochi di guerra, di disastri ecologici, di speculazioni, al prezzo di una Storia “che getta via/milioni di disgraziati” (“ch’a sbatt via/miglión da disgraziaa”) come le vicende in Ucraina di queste giorni continuano a dimostrare. La civiltà dei campi e dei boschi finita, come allora la vita contadina, tolta anche nella rabbia la voglia di bestemmiare, coi soldi mutato il modo di vivere e guardarci, “venduto alle fabbriche/abbiamo intossicato l’aria, il nostro dialetto” (“Vendüt ai fabbrich/em intossegaa l’acquaa, l’aria/ul noss dialet”) bruciando “l’ultimo fieno che nessuno vuole più tagliare” (“l’ütim fén che piü nissün vö taiaa”). È dalla parola allora che svuotata, riappresa nuda nel legame non interrotto come detto col perché della terra, coi suoi motivi, che ancora nel corpo gli trasudano addosso dai campi, il riapprendimento fedele di uno scorrere che ha nel suo procedere stesso nell’ordine naturale che lo trascende la sua concreta e muta affermazione : “Io sono come la roggia / in pian d’Agno/che scorre verso la foce del lago” ci dice (“Mi súm curnè ra rúngia/in pián d’Agn/ch’a scúr-giò vèrs ra foce dar lágh”) nella rivelata Grazia di sentirsi finalmente “Pulviscolo messo al mondo/da un disegno grandioso/galassia-uomo nella Tua eternità./(..)//Sinfonia che viene da lontano” (“Visíbur metüd ar múnd/da’n diségn grandiús/galassia-óm in dra Tò eternità./(..)//Sinfon í a ch’a végn da luntán”). E dunque nella rivelata anche pronuncia di una terra che dice tutte le terre, assomma tutte le terre nella coscienza soprattutto di quelle umiliate e nella prova. È così una parola alla prova di una possibile e rimemorata innocenza a roteare in cielo come ghirighoro dei bambini, come stormi a disegnare geometrie mai viste senza sapere la posa finale se non nel canto “dell’uomo che si ascolta dentro//per sentire i frastuoni del Silenzio,/gli Altri, il Mondo: tutto quello/che pensiamo Grande sopra di noi” (“da l’om/che sa scolta denta da luu//par sentì i fracasséri dar Silenziu,/i Altri, ur Mund: tutt quel/ ch’ha pénsum Grand sura da num”). L’indignazione e la compassione religiosa, siamo d’accordo con Renato Martinoni, a ricomporre infine il fulcro del dettato: “Questo cercare tormentato/il segno di una parola nuova/che possa lacerare/la ragnatela muta del feriale.//Magari dirti chi sei, Re o manovale/accomodato nella speranza del domani (“Stù cercà turmentàt/ ur ségn d’una paròla növa/che la pòdà scarpa/ra ragnatela müta dar dislavùr.//Magàri dìtt chii ch’a sett, Re o magütt/lògàt denta ra speranza par dumàn”).
Gianpiero Stefanoni