Nella sequenza di apertura di Spencer, mentre i reali di Inghilterra iniziano ad arrivare alla tenuta della regina di Sandringham alla vigilia di Natale, vediamo Diana aggirarsi, sola, alla guida della sua auto per le campagne del Norfolk. “Dove cazzo sono?”. Poi, si ferma ad una stazione di sosta e, tra gli sguardi basiti dei presenti, dice “Mi sono persa”. Sono queste le sue prime battute e parole all’interno del film. La Diana di Pablo Larraín si è persa, nel mondo, nella sua vita, in se stessa. Ha perso i pezzi, è disgregata nello spirito, nel benessere fisico, nelle emozioni che fatica a provare, nell’amore che non riceve e fatica a dare. Disgregata in un passato lontano e in un presente troppo stretto, soffocante, che fatica ad attraversare.
Dopo Neruda e Jackie, il regista cileno, sempre più presenza di spicco nel panorama cinematografico mondiale, continua a raccontare la Storia e i suoi misteri attraverso una storia di personaggi celebri. Quello che Larraín fa al genere è la medesima operazione a cui sottopone i suoi personaggi: decostruisce il biopic tradizionale, abbandona il realismo e lo strato solido del racconto storico, per lasciarsi andare e creare una forma nuova e libera, costantemente innervata da una fascinazione cinematografica che è collante, cardine, che è telaio su cui lavorare la trama che al genere principale interseca fili di altri generi, apparentemente inconciliabili. In questo caso è l’horror che tira a sé i fili del biopic per cucire qualcosa di diverso. E così, allo stesso tempo, Larraín, chirurgicamente e con dovizia di attenzioni, smembra il suo personaggio storico: i pezzi di Diana, come le perle di quella collana che porta al collo e che prima vengono mangiate in un’allucinazione visiva e poi cadono fragorosamente per le scale della vecchia casa d’infanzia, si perdono nelle tante, splendide, sequenze del film. Kristen Stewart è magnetica quanto basta per indirizzare la celebrità dentro i sentieri della fiction: Lady D. è la protagonista di un film horror. Che si guarda alle spalle per paura che venga inseguita, che si aggira di notte da sola, che vede fantasmi all’ombra di ogni angolo della casa; triste, infastidita, inadeguata, stretta in una morsa di orrori e visioni inquietanti, sempre avulsa dal contesto. Che combatte contro un marito che la tradisce; che lotta contro una famiglia, i “loro”, che “non sono cattivi”, ma che la regia di Larraín inizialmente abbandona ad un fuori campo di tensione e inquietudine, così da trasformarli in un’entità pericolosa e opprimente. La principessa del Galles lotta contro il maggiore Gregory, che la segue, che la perseguita, che la richiama ai suoi doveri, ai suoi abiti da indossare, ai suoi orari da rispettare: Lady D. è inserita in una prigione fatta di schemi e programmi così rigidi da annientare il futuro. “Qui c’è solo un tempo. Non c’è il futuro. Il passato e il presente sono la stessa cosa”, dirà ad un certo punto ai suoi figli.
La bellezza è solo un abito. La tragedia è nuda e si nasconde dietro la favola, la favola svela la tragedia. Il dolore, i pianti, i vomiti, sono lontani dall’apparenza sorridente mostrata a favore dei fotografi. La disgregazione, familiare e interiore appunto, è celata dietro un’apparente unità mostrata al mondo. L’estetica cinematografica, così geometrica, così kubrickiana (Shining, Barry Lyndon) nasconde e svela l’orrore e l’incubo. Larraín dipinge quadri inquietanti e dalla bellezza vertiginosa, grazie anche al prezioso lavoro di fotografia di Claire Mathon, che si imprimono sulle retine dello spettatore, e come un occhio esposto al sole, nascondono verità ambigue e distorte. È un abito bellissimo quello che fa indossare a Spencer, ma non è l’abito giusto, proprio come fa Diana che scambia quello della cerimonia con quello della cena. È un abito sbagliato. È l’abito dell’horror quando doveva essere quello del biopic. Ma è quello che va fatto, per ritrovare se stessi e per salvarsi: rompere lo schema, evadere da regole e convenzioni. Occorre che Diana vada alla battuta di caccia degli uomini, si ponga in mezzo e interrompa gli spari, impedisca ai suoi figli di prendere parte a quella tradizione antica. Li prenda con sé, per portarli via, in auto, lontano da lì. E poi sedersi su una panchina lungo il Tamigi, a mangiare cibo di un fast food. Lei è vestita come in un giorno qualsiasi, jeans, maglioncino e giacca, un cappello sulla testa. È necessario togliere un abito bellissimo e regale e indossare quello sbagliato, quello della banalità del quotidiano, che, tuttavia e grazie a dio, da sempre il Cinema ha il potere di trasformare in straordinarietà. Straordinaria semplicità, straordinaria umanità. E di innestare un futuro, suscitare la speranza. La bellezza è un abito sbagliato.
Simone Santi Amantini