Al Teatro Parioli di Roma, fino al 10 aprile 2022
Le dottrine scientifico – letterarie sono soggette a continui approfondimenti intellettuali, revisioni critiche e scoperte sperimentali d’osservazione scrupolosa e metodologica, sottoposte ad una giusta e prolungata verifica, per essere sempre più adeguate all’oggettiva verità e consistenza, rispondendo meglio e maggiormente alle necessità dell’uomo di conoscere per soddisfare la sua sete di sapere, secondo l’ammonimento socratico, nonché vivere con più piacere nel mondo chiamato ad immagine di Dio a dominare e poter stare in questo più tempo, crescendo le possibilità diagnostiche e terapeutiche. Questo viene dimostrato chiaramente a partire dal’ 500 con l’innovazione astronomica eliocentrica di Copernico e Galilei rispetto al sistema geocentrico tolemaico, le leggi di Newton e Keplero, l’investigazione da laboratorio all’origine del barometro di Torricelli, del rinvenimento dei vasi sanguigni da parte di Malpighi ed infine il razionalismo di Cartesio che opponeva la logica mentale ed il frutto dell’applicazione dell’ingegno alla fisicità meccanica e geometrica. Sarebbe poi arrivato il Settecento con l’epoca dei “lumi” razionali ed il principio di tolleranza di Voltaire, gli Enciclopedisti Diderot , D’Alambert e Montesquieu, che avrebbe codificato la divisione dei tre poteri. Rispetto a questa triplice ripartizione ed evoluzione culturale, Rousseau rimase contrario alle sorti scientifiche e progressive dello scibile umano e lo ribadì nel suo capolavoro letterario “Emilio” od “il Contratto sociale” per cui giunti al terzo stadio eroico l’uomo si smarrisce e con la tirannide ricade indietro, alla maniera storica di Polibio che aveva contrapposto gli aspetti positivi e negativi della gestione dell’autorità dalla monarchia all’impero. Ciò aveva significato la maggiore o minore libertà dell’individuo come “animale politico” destinato alla partecipazione alla vita civile con la “Repubblica”, le sue “Leggi” e gli organi istituzionali, cui restavano estranei i barbari non elleni e gli schiavi privi d’una formazione di base e dignità, che poi a Roma avrebbero conseguito con l’affrancazione con il nome di liberti. Tuttavia se non s’è completamente uomini responsabili e decisivi del proprio destino e della scelta mirata del governo che ci deve guidare sulla via dello sviluppo socio – economico e civile quando non si dispone d’una sufficiente cultura primaria e del rispetto dei diritti umani, come avviene nei regimi ed adesso nella dittatura di Putin in Russia che vieta ogni forma di dissenso e manifestazione di protesta contro la guerra che sta portando avanti in Ucraina e che ora ha toccato livelli di genocidio con la strage di Bucha, anche se si trascura di usare la ragione e si esiste secondo impulsi ed istinti naturali non mediati si precipita al rango di “animali bruti”, per citare l’insegnamento del nostro padre linguistico Dante. Ce lo ricorda agli inizi del’900 il drammaturgo Pirandello con la novella “La patente” in cui il protagonista Cecè avendo la gobba veniva considerato dalla massa plebea uno jettatore ed egli, cercando di trarne intelligentemente la convenienza speculativa, richiedeva al Tribunale di riconoscere ufficialmente le sue capacità d’influsso negativo sulle vicende quotidiane degli individui. Da tale grottesco ed assurdo fideismo nella “sfiga” e nelle credenze surreali se ne fece comicamente interprete il geniale autore e straordinario attore Peppino De Filippo che compose argutamente “Non è vero, ma ci credo”, ambientandolo negli anni trenta dove non c’era ancora una diffusiva formazione culturale, mentre il figlio Luigi l’avrebbe spostato in avanti nel periodo del “boom” economico successivo alla seconda guerra mondiale, lasciando sempre come personaggio chiave intorno a cui gira tutta la storia farsesca l’ingegnere Gervasio Savastano. Ora il lavoro è stato ripreso dal regista Leo Muscato, formatosi con la scuola recitativa del capocomico Luigi, che l’ha trasportato ancora più avanti negli anni Ottanta per dimostrare che le false credenze ed inverosimili certezze sono dure a morire, non avendo più alcuna comprensibile giustificazione, specie se si vanta qualche titolo di studio. La parte principale dello spettacolo, antitetico nella definizione del copione dell’indimenticabile Peppino o notoriamente “Pappagone” con la sua asserzione “Vincoli o sparpagliati?”, è stata affidata ad Enzo Decaro , intorno a cui ruota la Compagnia del bravo Peppino, che impersona l’imprenditore che licenzia un suo dipendente in quanto pensa che poti sfortuna aprendo l’ombrello in ufficio ed assume un giovane Sammaria gibboso poiché, alla guisa del re Mida, tutto quello che tocca lo trasforma in oro. Fa realizzare un affare stagnante da tempo, spegne a distanza l’incendio che sta devastando la fabbrica di Sangiovanni nell’entroterra partenopeo, fa d’incanto riavere lo stesso Savastano da un blocco muscolare e la sorella da un improvviso malessere cardiaco. L’avarissimo Savastano, che potrebbe ricollegarsi al celebre personaggio Arpagone di Molière, gli si prostra davanti e l’elegge a suo idolo venerabile giacché non solo non spende soldi, ma li guadagna pure. Le sue paranoie schizofreniche s’accentuano allorché viene catturato un gatto nero che ordina di gettare lontano e si sente al sicuro di tutto, però la figlia s’invaghisce del presunto portafortuna e lo sposa in barba al volere del padre. A che si deve questo brusco cambiamento d’umore del genitore, che pagherebbe il ragazzo per annullare il matrimonio? Per Gervasio la figlia non può apparire in pubblico con un gobbo a scapito della sua reputazione con pettegolezzi negativi, che screditerebbero l’intera famiglia e perciò Sammaria deve togliersi la giacca e palesare che la gobba era solo un panno ripiegato per acquisire le simpatie del suocero. Siamo insomma di fronte al Teatro dell’Arte del’500 con le sue maschere ed i personaggi riflesso dei vizi e dei caratteri degli umani, che vengono ridicolizzati e messi alla berlina per fustigare il ragionamento con la “Pancia” invece che con il cervello ed appunto l’irriducibile Savastano è costretto ad aprire gli occhi ed a dichiararsi vinto, ma ha un funambolico colpo di coda, come quelli che a Napoli impiegano agli, monacelli e cornetti rossi, per riti apotropaici o propiziatori. La prima è andata in scena il 31 marzo in cui ricadeva il quarto anno dalla morte di Luigi De Filippo, di cui alla fine è stato proiettato un filmato di qualche minuto per il suo intimo privato e le sue brillanti qualità attoriali con un ringraziamento per tutto ciò che c’ha trasmesso come geniale e fertile commediografo, estroso teatrante e promotore culturale con le virtù manageriali. L’ambientazione borghese dell’azienda e della casa è di Luigi Ferrigno, mentre i costumi della classe media portano la firma di Chicca Ruocco. Lo spettacolo sarà replicato da giovedì a domenica prossima al teatro Parioli.
Giancarlo Lungarini