VENEZIA, 7 SET – I film di oggi alla 79° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia affrontano con uguale tensione, emozione e qualità, il tema della responsabilità genitoriale.
Quella dei genitori separati con un figlio problematico adolescente in “The Son” di Florian Zeller e quello di un caso di infanticidio in “Saint Omer” di Alice Diop.
Con “The Son” il drammaturgo francese Florian Zeller continua la sua trilogia “familiare” dopo il pluripremiato “The Father”, con cui ha esordito come regista, e il futuro “The mother” che ancora è in produzione.
Il film racconta la storia di un avvocato di successo, padre separato, neo papà con la sua nuova compagna. Tutto gli sorride, finanche una promettente carriera politica, fino a quando compare nella sua vita, il suo primo figlio.
Si chiama Nicholas, il figlio, da due anni elabora il divorzio dei genitori. Vive con la madre Kate (Laura Dern), ma non riesce più a sentirsi a suo agio. Pensa sia un problema, almeno inizialmente, di quelle quattro mura e della madre, ancora scossa dalla separazione. Un vuoto profondo, invece, è suo compagno quotidiano, indipendentemente dallo spazio che abita. Chiede al padre Peter (Hugh Jackman) di trasferirsi da lui, che vive con la nuova compagna Beth (Vanessa Kirby). I due hanno appena avuto un bambino, un fratellino di poche settimane. Il padre è un avvocato di successo per un grande studio legale, lavora buona parte della giornata, e sta pensando di accettare una proposta per una carriera politica a Washington.
In The Son, Florian Zeller scarnifica con precisione analitica ma mai distante la depressione fino al disagio mentale di un ragazzo, in equilibrio fra il turbamento naturale di un adolescente alle prese con la paura di crescere e qualcosa di più profondo. Per i genitori non si tratta più di palleggiarsi i sensi di colpa, mentre Nicholas li manipola colpendo duro da una parte o dall’altra. Il giovane finirà per scatenare una serie di eventi che culmineranno in una tragedia.
Saint Omer aggiunge un altro tassello a queste riflessioni, ma con la prospettiva unica e originale di Alice Diop. La regista, nata in Francia da genitori senegalesi, trae ispirazione dalla vera storia di una donna che uccise la figlioletta lasciandola in spiaggia con l’arrivo dell’alta marea, e ricostruisce la sua esperienza di assistere al processo nella città eponima (ma cambiando il nome della donna in Laurence Coly). Kayije Kagame interpreta la scrittrice Rama, “doppio” ideale dell’autrice, che segue il dibattimento per scrivere un articolo, ma comincia a nutrire dubbi sulla sua stessa maternità imminente. Il ricordo della madre la perseguita, insieme al timore di diventare come lei.
Diop evoca sicuramente la preoccupazione di non essere all’altezza, ma i tormenti della protagonista riguardano in gran parte il retaggio indissolubile tra madri e figlie, e l’idea che qualcosa della propria genitrice rimanga sempre dentro di sé (come sottolinea l’avvocata nell’arringa finale, culmine emotivo del film). In effetti, Saint Omer lavora sull’importanza del racconto verbale, e cerca di replicare la stessa intensità provata dalla regista durante l’ascolto del processo. Di conseguenza, gran parte della sua durata è occupata proprio dalle deposizioni, che Diop inquadra con lunghi piani sequenza o long take, a camera fissa: il viso di Guslagie Malanda, interprete della rea confessa Laurence, assume così una centralità quasi estenuante, poiché ci costringe a confrontarci con la viscerale umanità della donna, lontanissima dalla retorica popolare del “mostro”. A prima vista può sembrare una scelta poco “cinematografica”, nel senso che si affida più alla narrazione verbale che al racconto per immagini, ma l’occhio da documentarista della cineasta francese è abituato a lasciar parlare il soggetto con la massima naturalezza. Le sue inquadrature ci permettono allora di scavare in ogni minima piega del volto, e di studiarlo a fondo come faremmo in un vero processo.