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SICCITÀ, UN’OPERA CORALE AMBIENTATA NEL FUTURO CHE PARLA DEL PRESENTE

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In una Roma assolata e dalle forti tinte ocra, dall’aria così densa da essere quasi irrespirabile, e vessata da una siccità lunga tre anni che non lascia margini di speranza, si muove una moltitudine di personaggi in cerca di acqua, non solo in senso letterale, ma anche metaforico: hanno bisogno di una fonte di vita, hanno necessità di vivere o di tornare a vivere. Antonio ha ucciso la compagna e vive in prigione da vent’anni, non sa più come è fatto il mondo esterno e non desidera più la libertà; Alfredo vive e sopravvive nei social, si nutre della visibilità che gli regalano i suoi tantissimi followers, mentre sua moglie scambia sms con l’insegnante di yoga e di nascosto, contro le regole, “spreca” acqua annaffiando una piantina morente; Alfredo fa l’autista, sniffa cocaina, è trasandato e sudato e dialoga con i fantasmi dei genitori e del presidente del consiglio morto di cui un tempo faceva appunto da autista; sua figlia suona il pianoforte e sogna l’amore; Sara è triste, fa la dottoressa e scopre un virus portato dalle piattole e una conseguente pericolosa epidemia; e ce ne sono molti altri. Il mosaico è ampio, i pezzi, mano a mano che il film procede, iniziano a incastrarsi e a mostrare un quadro d’insieme sempre più definito e drammatico.
Virzì firma un’opera corale e dalla forte ricaduta nell’attualità. Si parla di epidemia e di chiusura in se stessi, di televisione e del suo potere di plasmare e di influenzare le coscienze, di una politica slegata dalla realtà e legata ai suoi avidi interessi e impastata nei soliti litigi, si parla di social come di mostri capaci di condannare e fagocitare vite e rapporti; si parla soprattutto di esseri umani feriti, di relazioni che si scottano alla luce insopportabile del sole, che si inaridiscono al punto di crettarsi. Servirebbe solo un po’ d’acqua per ammorbidire le anime e i cuori, avvicinare di nuovo questi lembi secchi di terra.
Virzì butta sulla tela chiazze di colore, scene di brevi intervalli: la sua macchina da presa segue un personaggio e poi lo lascia per accorgersi di un altro e indugiare un attimo su di lui; poi abbandona anche questo in una dissolvenza a nero, e riapre la sua inquadratura in campo lunghissimo su Roma, dall’alto, una città decadente, assediata non dai barbari come nell’antichità, ma dai suoi stessi cittadini, incapaci di collaborare, di condividere e dialogare, infine di solidarizzare, che amano se stessi più dell’altro, che restano aggrappati al passato, che non si accorgono dei dissidi interni dei propri figli, che i valori in cui credono e che professano con sapere scientifico svaniscono al semplice invito ad un bagno in una jacuzzi piena d’acqua con una bella donna. “Perdonaci, perdonaci tutti” dice Mila alla sua piantina mentre tenta disperatamente di salvarla.
A volte Virzì perde un po’ i suoi personaggi in questo quadro composito e ricco di situazioni, rischia di lasciarli ad una superficie di analisi che non meritano, e lo spettatore, di conseguenza, di vederli poco aderenti alla tela, come una macchia di colore secco sul punto di staccarsi e cadere nell’indifferenza. Ma Siccità resta un’opera importante e coesa, ben girata, ben interpretata, ben piantata in questa drammatica attualità, senza didascalismi, ma con toni spirituali ed esistenziali, anche con il sorriso e l’ironia. La pioggia arriverà, sempre, nonostante l’uomo, nonostante le sue colpe, nonostante il suo smarrimento senza speranza.

Simone Santi Amantini

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