Al Piccolo Teatro di Milano, fino al 16 ottobre 2022
Dall’alto dei suoi incredibili ottantotto anni portati e agiti in scena come nessun altro, Umberto Orsini torna per la terza volta a interagire con la monumentale opera di Fëdor Michajlovič Dostoevskij I fratelli Karamazov: nel 1969 era uno dei protagonisti dello sceneggiato firmato dal regista Sandro Bolchi con la sceneggiatura-adattamento di Diego Fabbri. Le sette puntate ebbero un successo enorme, sia per numero di spettatori che seguiva la serie televisiva sia di critica, tanto da riflettersi sulla conoscenza e diffusione del romanzo, che raggiunse lo status di best seller. Nel 2014 è la volta di La leggenda del grande Inquisitore. Ancora più rastremata che allora, Le memorie di Ivan Karamazov, nella drammaturgia dello stesso Orsini e di Luca Micheletti, è lo spettacolo andato in scena in prima nazionale al Piccolo Teatro Grassi di Milano, Umberto Orsini è sempre Ivàn Karamàzov, ormai invecchiato, a misurarsi a decenni dai fatti accaduti e raccontati in prima persona, con il se stesso giovane e con i fantasmi del suo libero pensare. Questa drammaturgia si prende la libertà di farne un personaggio che resiste nel tempo, in disperata e serrata lotta per far luce sulla sua filosofia di vita e il suo pensiero. In scena, l’attore è circondato da echi demoniaci a suscitare fittizi interlocutori, suscitati dal suo stato psicologico, resi faustianamente credibili da una semovente macchina parlante. Ivàn ha esposto al fratello Aleksej un suo racconto allegorico ambientato in Spagna, ai tempi della Santa Inquisizione. E’ Cristo in persona che ritorna sulla Terra: riconosciuto e incarcerato dall’Inquisitore sarà condannato a morte. Incontro in cui Ivàn, sfruttando un fascinoso specchio a simulare il doppio personaggio, si muta nella figura dell’Inquisitore che serratamente argomenta di temi capitali quali fede, mistero, libertà e peccato. La fascinazione del teatro inizia a luci spente e velario ancora tirato: la presenza del grande attore è palpabile ancor prima che inizi a recitare, svelando il culto della parola che il grande interprete sa esprimere in ogni sua sottigliezza. Si profila un personaggio cerebrale e tormentato, che definisce se stesso lucidamente pazzo, disgraziatissimo nuovo Amleto, ragionatore implacabile. Come non rimanere stupiti allora dell’affinità che s’intreccia fra l’attore e il personaggio (non riuscendo più a distinguere chi sia il sosia di chi) ottenuta con ferrea tecnica, frutto di lavorio e politura in anni d’intenso artigianato attoriale, impreziosita sospensioni di voce cariche di tensione che ci rendono il lucido e cinico disincanto di Ivàn. Il mistero del dolore, tema che da sempre sfida le intelligenze umane, e l’esistenza di Dio. Quegli uomini che, come Ivàn Karamàzov, amano la vita ma scelgono l’inferno, prigionieri dell’inazione. L’eterno motto di salvare e salvarsi: si torna sempre a Cristo. Segue la drammatica e folgorante scena dell’Inquisitore, in cui la parete si apre a mostrare uno sdrucito e opaco specchio, riflesso e coscienza di sé. Dostoevskij trascina, per mezzo di Orsini la soggiogata platea in una trattazione teologica, accorato scontro con la divinità in cui il personaggio non teme di sfiorare la blasfemia, cui è sottesa una ricerca di senso: perché sei venuto a disturbare il nostro lavoro? Stupefatta tensione. Miracolo e Mistero le principali manifestazioni per attrarre l’umanità e Ivàn/Inquisitore che si erge senza timori reverenziali a correttore della Sua Opera! L’Inquisitore non ama Cristo (e lo confessa apertamente), ergendosi a suo pari, novello Lucifero che odia gli uomini. L’inquisitore altri non è se non la proiezione romanzata di Ivàn, che si disincanta riconoscendo non poter stabilire la propria debolezza e, di conseguenza, dichiarando l’assoluta e completa sfiducia verso tutti gli esseri umani. “Non più ribellarsi, sognare, darsi pena…” Spettacolo di grande fascinazione e raffinata intelligenza, reso pregnante da una regia dello stesso Micheletti, coautore drammaturgico, che sposa con la stessa passione rappresentativa per l’intensità dei temi che il testo fa emergere. Cura e maestria si riflettono nell’allestimento, scene di Giacomo Andrico, suscitatore della magia creata dall’ambientazione in quell’abbandonata aula di tribunale, delabré, e pur ricca di memorie ivi depositate, quasi proiezione di un habitat mentale degradato e sregolato. Perfettamente inseriti i costumi di Daniele Gelsi, naturale penchant dell’allestimento in un’omogeneità di adesione all’idea registica che sempre meno è dato trovare. Lo stesso dicasi delle fondamentali luci di Carlo Pediani a rendere palpabile l’atmosfera cerebrale, quando misteriose e gelide sciabolano dall’alto o sorgono dalla botola. Ultima il geniale inserimento della semovente macchina parlante, trombe fonografiche a simulare l’ipotetico interlocutore interiore. Grande serata di teatro, cui fa seguito un diluvio di applausi liberatori. In scena fino al 16 ottobre.
gF. Previtali Rosti