Le buone stelle – Broker parla di famiglia, e non poteva essere altrimenti in un film del giapponese Hirokazu Kore’eda, che ha fondato la sua poetica cinematografica proprio su questo tema centrale, questo snodo cruciale di trame e orditi narrativi. Ma qui lo fa in modo nuovo ed originale, intessendo un racconto tutto da fare, proprio come i personaggi che ruotano intorno ad un neonato abbandonato, forza centripeta, che attirandoli a sé darà modo loro di costruire legami, costruire se stessi, e dare infine forma ad una “famiglia” sgangherata, simpatica, ma amorevole.
So-young è una madre giovanissima, ma in seria difficoltà, e in una notte di pioggia decide di lasciare suo figlio neonato in una “baby box” di un ospedale: una moderna “ruota degli esposti” dove porre i figli indesiderati così che qualcuno potesse prendersene cura. Ma il suo piccolo viene preso in custodia non dall’ospedale, ma da Sang-hyun e Dong-soo, che gestiscono un’attività clandestina di contrabbando di bambini: cercano per loro la famiglia migliore, che desidera adottare senza passare dalle agenzie, e che possa soprattutto pagarli bene. Partono alla ricerca di un futuro stabile per il bambino e per loro stessi, ma alla compagnia si aggrega fin da subito la madre, che nel frattempo, mossa dai sensi di colpa e in cerca di captare sicurezze per il figlio, era tornata a cercarlo, e più avanti un orfanello. Da lontano vengono braccati da due poliziotte, determinate ad incastrarli.
Le buone stelle è in sostanza un road movie, un racconto on the road su furgoncino malconcio per le strade e le città della Corea, alla ricerca di speranza per il bambino, ma come spesso accade anche per chi quel viaggio lo compie. Perché chi arriva a destinazione non è mai lo stesso che è partito: i personaggi, inquadrati sempre con attenzione e controllo dalla macchina da presa del regista, non sono ciò che possono sembrare inizialmente, e interagendo tra loro, piano piano si mettono a nudo, scoprono i fianchi ma senza paura, condividendo i lati deboli del loro essere, il passato difficile e traumatico che ha a che fare proprio con problemi familiari, e psicologie stratificate e pesanti.
Tra siparietti ironici e scontri su questioni e dilemmi sociali e umani tesi sempre a fare la cosa giusta per il bambino, Kore’eda racconta una storia di formazione: individui che faranno gruppo e si scopriranno famiglia, dalla solitudine alla condivisione, dalla sopravvivenza alla vita, e lo fa con il suo solito tocco lieve che esalta tenerezza e sentimenti, che non banalizza i contenuti e le domande per nulla scontate, ma anzi di una gravità anche maggiore rispetto a quelle delle sue opere precedenti: cosa vuol dire essere madre e avere cura, accettare responsabilità che ci vengono gettate addosso, cosa vuol dire aspettare l’altro senza giudicare d’istinto, ascoltare e per riconoscere il proprio dolore in quello altrui, cosa vuol dire veramente essere famiglia, anche quando non esistono legami di sangue. Kore’da racconta senza esagerazioni, ma con la grazia e la docilità di un Cinema che riconcilia, che lavora nell’anima dello spettatore, che sa infondere pace.
Simone Santi Amantini