All’Opera di Firenze, il 20 ottobre 2022
Alcina di George Friedric Händel. Uno degli indiscussi capolavori della poetica barocca, incentrata sulla meraviglia (vocale innanzitutto, pur anche strumentale e scenica), Alcina è pura magia: la protagonista è una maga. Tra i primi, fortunati spettatori a vedere l’opera nel 1735 al Covent Garden di Londra, non pochi ricavarono l’impressione che lo stesso compositore, al clavicembalo a dirigere come si usava allora, fosse un negromante nel pieno dei suoi incantesimi. Incantamenti musicali, cui è difficile resistere. Handel non amato, con nemici tra i cantanti, compositori e manager teatrali ma persino tra i nobili, che fecero di tutto per rovinarlo, si trova a fronteggiare la nascita della rivale “Opera of the Nobility”. Si organizzano concerti e balli per sovrapporsi alle rappresentazioni delle sue opere, si arruolano ragazzi con il compito di strappare i poster teatrali del musicista. E’ in questo clima che nasce Alcina, scritta in un tempo di ostilità, ma di cui nulla traspare in partitura, anzi è una delle più belle e fantasmagoriche opere scritte dal compositore. La sua punta di diamante è Giovanni Carestini, uno dei più famosi castrati del tempo, una “star” come si direbbe oggi: egocentrico come tutte le primedonne, esigeva che si componesse solo per far risaltare la bellezza e la brillantezza della sua voce, mettendo in risalto la sapienza della scaltrita tecnica vocale. Fu così sorpreso di trovare in partitura un’aria (il larghetto Verdi prati) dall’andamento calmo e quasi malinconico che rispedì la partitura al compositore. Furioso, Handel si fiondò dal capriccioso cantante per intimargli che non sopportava opposizioni e che era lui a dire cosa dovesse cantare. Alcina è un’opera seria, ossia con protagonisti importanti dall’elevato rango sociale o fantastici, non certo plebei. Strutturata quasi essenzialmente nella successione di arie, momento privilegiato in cui si cantano gli affetti o i sentimenti, ripetuti poi nel da capo fioriti e variati. In Alcina l’azione ha luogo in un regno incantato, anche se il regista Michieletto, nell’allestimento andato in scena per la prima volta al Festival di Salisburgo, lo interpreta in maniera personalissima, che non prevede lo stupore e meraviglia legati agli effetti scenici dell’opera barocca. Il libretto, di autore ignoto, tra la sua fonte dall’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, poema epico per eccellenza del nostro Rinascimento, adattato alle esigenze di un pubblico settecentesco. L’opera, mai rappresentata a Firenze, inserita nel Festival d’Autunno del Maggio Musicale Fiorentino, ha attirato nel capoluogo toscano un gran numero di appassionati d’opera per la presenza nel cast di Cecilia Bartoli, cantante cui non saranno mai rese sufficienti lodi per il benemerito lavoro di (ri)scoperta e familiarizzazione del repertorio barocco. Vistosi fascioni, sui manifesti che ritraggono Cecilia Bartoli/Alcina, accolgono all’ingresso dell’Auditorium Mehta gli sfortunati spettatori della seconda rappresentazione: Alla cantata… manca la Diva. Il Sovrintendente Pereira dolente si scusa a inizio recita motivando il forfait della Bartoli e presentando, con il beneaugurante cognome, la sostituta Marie Lys. L’allestimento firmato da Damiano Michieletto è quello andato in scena a Salisburgo nel 2019. D’indubbio fascino l’inizio dello spettacolo, in cui i precedenti amanti di Alcina, ridotti in schiavitù, travolgono ouverture e scena qual relitti umani sbattuti a riva, per sfociare nel contrasto visivo di Questo è il cielo di contenti zavorrati da un masso, qual penitenti di un girone dantesco. L’entrèe des songes funestes, affidata loro, trova una pregnanza tutta nuova. Michieletto da il meglio nel lavoro sugli attori, sempre efficacemente coinvolti in scena, ma prevedibile nel disseminar simbolismi quali l’accetta, l’albero grondante, la bambina che versa sangue, il padre di Oberto che trascina rami secchi, Alcina vecchia… Si tiene lontano dalla meraviglia e dallo stupore barocchi per procedere in una direzione di eterna sofferenza, di fallaci sogni e disinganno umano, in anticipi di decadimento e crollo finale esemplificati nella vecchia decrepita. Espunge tout court il godimento di qualsiasi natura e l’allusiva sensualità che permea l’opera, ritenendo solo l’esplicito sessuale con reiterati strusci e spogliarelli e copule. Scene di Paolo Fantin, costumi di Agostino Cavalca. Entra in scena Morgana, dal timbro sopranile un po’ coquette e dagli acuti puntuti e aciduli O s’apre al riso: non particolarmente mordente la sua coloratura. A lei tocca la più strepitosa aria della partitura e una delle più rapinose del repertorio barocco, quel Tornami a vagheggiar inizialmente data al personaggio della maga minore, ma che Händel successivamente affidò ad Alcina. Lucía Martín-Cartón fa del suo meglio, limitato alla correttezza e inficiato da sgradevoli suoni fissi (completamente estranei alla scuola di canto italiana) che tarpano e non restituiscono lo stupefacente virtuosismo. In Ama sospira, i tempi esageratamente larghi della ripresa mettono ancor più in rilievo l’infilata di suoni fissi. E gli schiavi amanti vengon meno sotto il peso di un gran masso. Marie Lys presta ad Alcina un timbro ricco di armonici, voce ben proiettata e penetrante. Nell’aria Di cor mio da subito un saggio della sicurezza con cui affronta il personaggio: omogeneità dei registri, scintillante ottava superiore, larghezza di fiati e arcate sonore, buon legato e piccolo trillo che s’innestano su un fraseggio, gioiosa sensualità e gusto nelle variazioni. Si rivela interprete raffinata in Si son quella trovando accenti patetici di frasi sussurrate che già fan presagire la fragilità della maga e la sua caduta, di cui non si sentiva necessità di visualizzarla vecchia, ché tutto è già nella musica e nel canto. Molto espressiva in Ah, Mio cor! Schernito sei! Su ritmi taglienti e insistiti dell’orchestra, cui il soprano è costretto a rispondere spingendo le note dell’ottava bassa. Arriva un po’ provata all’aria Ah Ruggiero crudel di cui non risolve appieno le frasi di sdegno e vendetta mentre in Ombre pallide, recuperando la corda patetica si fa valere. Così pure in Ma quando tornerai recupera il fascino di una veloce vocalizzazione. Ruggiero era Carlo Vistoli, controtenore di ragguardevole ampiezza di voce e d’indubbia omogeneità, particolarmente squillante e sonora nell’ottava superiore; mostra subito le qualità tecniche di cui è dotato in Di te mi rido, nella rapida e scintillante successione dei melismi, lega le frasi e varia con gusto la ripresa dell’aria. In La bocca vaga ripropone il godimento di un’organizzazione vocale vibrante, flusso sonoro che “corre” e riempie la sala. Opaca la “messa di voce” di Qual portento e qualche nota fissa sporca la bella linea vocale, impreziosita da smorzature sognanti. Non puliti gli attacchi del Mi lusinga, carente di vero abbandono e tenerezza. Verdi prati, pur ben eseguito, scivola via senza molto languore e rimpianto. Nell’aria Sta nell’ircana assurge a puro orgiastico momento di coloratura, con un ritmo febbrile, fin esagitato, espresso da potenti agilità di forza. Kristina Hammarström, già ascoltata come Bradamante alla Scala nell’Alcina stagione 2008/09, ha voce non particolarmente corposa pur vocalizzando con morbidezza e professionalità, ma senza particolar scintillio. Oronte ha voce appropriata ma non impeccabile nella dizione di Petr Nekoranec, rincorre l’aria Semplicetto, staccata a tempi iperveloci e in Un momento di contento mostra sbiancature. Melisso ha il timbro sonoro di Riccardo Novaro; in Pensa a chi geme trova accenti severi mentre fascia il tronco sanguinante e sbriciola foglie…Discutibile la scelta di affidare a un ragazzo cantore la parte di Oberto, per gli indubbi limiti di tali voci (cui è richiesto di cantare ben tre arie, e l’ultima ricca di melismi), quando lo stesso Händel aveva dilatato questa parte per un soprano che l’aveva particolarmente colpito in un suo oratorio. Direttore era Gianluca Capuano alla guida dei Les Musiciens du Prince-Monaco che alla ricercatezza del suono orchestrale affianca una dinamica sonora molto ampia, passando da un eccesso di tempi larghi a quelli iperveloci (Vorrei vendicarmi) in cui costringe la povera Bradamante a continue riprese di fiato, spezzando la linea di canto e la voce si sgrana e suona imprecisa. La direzione spesso tagliente, giunge a strappate drammatiche nei momenti topici Ah, Mio cor! Schernito sei! Ancor più enfatizzata nella ripresa con dilatazioni che rischiano di far cascare l’architettura dell’aria. Accoglienza trionfale di un pubblico che non riempiva la sala, con vere e proprie ovazioni per la Lys, Vistoli e Capuano.
gF. Previtali Rosti