Teatro alla Scala di Milano, recita del 13 dicembre 2022
Boris Godunov di Modest Petrovič Musorgskij è il risultato della raggiunta maturità dell’Opera russa: capolavoro più volte rifiutato dalle autorità accademiche perché ritenuto troppo audace per le convenzioni del tempo oltre alla dirompente novità di orchestrazione. Normale che sia stata osteggiata e non riconosciuto il suo valore, per essere poi manipolata al fine di stemperare l’ardita scrittura musicale adattandola ai canoni della tradizione del melodramma imperante. In Russia il desiderio di rinnovamento artistico e politico covava da qualche tempo e Musorgskij sarà una delle prepotenti voci che darà corpo a quest’aspirazione di una musica di schietta impronta nazionale. La prima versione dell’opera, di sette scene, composta in febbrile esaltazione, fu bocciata nel 1871 dagli scandalizzati esaminatori dei Teatri Imperiali. Offeso ma non vinto, il compositore opta per radicali cambiamenti e aggiunte. Seconda versione, con l’atto polacco e la foresta di Kromy; un vero e proprio rifacimento, dal valore ancor più grande. E nuovo rifiuto; ma la notorietà di Boris Godunov, fra esecuzioni di brani o private rappresentazioni comincia a crescere. Il resto è storia del melodramma, con la diffusione (piaccia o no) dell’opera nell’orchestrazione fantasmagorica di Rimskij-Korsakov. Grande impressione destò la serata d’inaugurazione del Sant Ambrogio 1979 quando Claudio Abbado presentò Boris Godunov nell’edizione integrale curata da Pavel Lamm, ma d’altrettanto interesse scegliere per l’apertura della Stagione 2022/23 la prima edizione, quella del 1869. Nuova produzione del Teatro alla Scala, affidata al regista Kasper Holten.
Ildar Abdrazakov Boris Godunov dalla statuaria figura, piega la voce di basso – di non particolare ampiezza e sonorità – a un’irresistibile profondità espressiva che lo incorona dominatore della serata. Attingendo a un fraseggio analitico e sfaccettato (senza troppo concedere a esteriori superposizioni naturalistiche), raggiunge vette di dolorosa intensità nella scena della morte, giocata su mezze voci e pianissimi di lancinante strazio. Visionario nell’estremo rendiconto finale, piega il canto a una gamma di sfumature di pathos nell’iterata richiesta di perdono al Creatore, cosciente della vanità del delitto. E sulla “storia” dipinta su velari, per un momento spezzatasi, appare beffardo e sorridente l’usurpatore Grigorij. Norbert Ernst, Vasilij Šujskij di cui si apprezza ancor più la capacità di supplire a uno strumento non particolarmente dotato nella resa di quello che, in questa visione registica, è il deus ex machina della vicenda. Tessuta la trama, è quel che tira i fili verso la conclusione, dopo il patto suggellato dalla stretta di mano con il falso Dimitri. Interprete sornione e mellifluo alla presenza di Boris, ben determinato nel condurre – con occhi scintillanti – il piano alla sua tragica conclusione. Ain Anger, il monaco Pimen incaricato della narrazione sui teli, già vergati e figurati, li completa degli ultimi particolari. Lo fa più con la figura imponente – azione teatrale fattiva – che con la voce, non impressionane per timbro ma con l’espressione d’incisivo fraseggio, febbrile e a tratti frenetico, pur distaccato e analitico osservatore delle passate vicende storiche. Lo fa in una cella ancor più minimalista e spartana di quel che si doveva già supporre. Il suo narrare sembra profetico nel presagire il futuro, senza rimpianto di un’era di splendori e battaglie passata. Quasi obbligato dal subdolo Šujskij a raccontare il miracolo di Uglich, lo fa senza struggente emozione, ché il timbro suo non è evocativo. Alexey Markov è Ščelkalov, efficace ed espressivo segretario della Duma dalla voce ben proiettata. Dmitry Golovnin un convincente Grigorij Otrepev dallo sguardo allucinato e determinato nell’impossessarsi del ruolo del falso Dimitri (letteralmente arrampicandosi, nella scenografica soluzione di fuga in Lituania), calpestando “la storia” scritta sui velari per giungere alla vetta del suo sogno. Stanislav Trofimov presta una voce non particolarmente robusta, offrendo un Varlaam convenzionale e poco approfondito, fedele al cliché ancorché funzionale. Lilly Jørstad un modesto Fëdor giocato sulla recitazione per supplire a uno strumento vocale poco esteso e rotondo nei centri, dilatando i gravi. Discreta Ksenija di Anna Denisova, dal timbro acerbo a caratterizzare l’esangue figura della sconsolata giovane al primo innamoramento, così come funzionale è la nutrice di Agnieszka Rehlis. Maria Barakova è un’ostessa dalla gustosa mimica facciale e dal canto saporito. Yaroslav Abaimov un albino Jurodivyi di voce vibrata, più lagnoso che profetico, cui Musorgskij mette in bocca una nenia struggente. Alexander Kravets, Misail, Oleg Budaratskiy Guardia, Roman Astakhov Mitjucha e Vassily Solodkyy Un boiaro di corte completano onorevolmente il cast. Ispirata la direzione del Maestro Chailly intrisa d’ineluttabile amara fatalità, giocata su una ricca gamma di nuances tragiche e drammatiche. Intenso e serrato il fluire narrativo che trapassa dall’iniziale tensione in uno stemperarsi in fatalistica accettazione e arresa nella morte dello Zar. Sfarzosa la resa musicale della processione, a trasmettere il senso della spiritualità che pervade il popolo. Sfolgorante la resa dell’Orchestra e superbo il Coro della Scala, che da voce al popolo russo, oppresso e tiranneggiato (pur tratteggiato nella sua volubilità), mostra grande sicurezza in sfumature e accorati accenti, preziosi pianissimi sussurrati. Lodi anche ai giovani cantori delle Voci Bianche dell’Accademia Teatro alla Scala. Kasper Holten il regista, immagina lo scorrere degli eventi in quel tragico momento della Russia su grandi teli a velari verticali sui quali scorre la Storia, quella che Pimen, con pittura e pennello, si appresta a lasciare in eredità ai posteri. Giunge il momento in cui i velari si spezzano, a presagire il cambio del corso storico. Efficace regia che contribuisce, soprattutto nella prima parte, a formare un blocco omogeneo con il canto e la direzione orchestrale; meno pregante la seconda parte, dove sceglie soluzioni più convenzionali di atemporalità e in accostamenti del ripetersi di eterni tiranni. Toccante licenza scenica di introdurre i cadaveri degli altri fanciulli trucidati, ennesima strage degli innocenti, che si rianimano per ammonire lo Zar. Inefficace, quanto inane drammaticamente l’uccisione di Boris, già mortalmente roso dal rimorso. Meno felice porre il morticino insanguinato fin dal principio, personificazione dello spettro mentale che lo perseguita, tacendo del raddoppio dei figli insanguinati dello zar. Scene di Es Devlin, Ida Marie Ellekilde cura i costumi, buone le luci di Jonas Bøgh e i video sono di Luke Halls. Calorosa accoglienza finale per l’intera compagnia, con ovazioni per Abdrazakov e il festeggiatissimo Chailly.
gF. Previtali Rosti