Corriere dello Spettacolo

Branciaroli implacabile Shylock

Al Teatro Fraschini di Pavia

Nella lunga tournée intrapresa ha fatto tappa a Pavia sul palcoscenico del bellissimo Teatro Fraschini (opera di Antonio Galli Bibiena) IL MERCANTE DI VENEZIA di William Shakespeare, nella traduzione di Masolino D’Amico. Si saluta con piacere il coraggio di tornare, in tempi ancora incerti, a formare compagnie che vadano aldilà dei due o tre attori. Una produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Centro Teatrale Bresciano e Teatro de Gli Incamminati. Scritto fra il 1596 e il 1598, Il Mercante di Venezia s’ispira a diverse fonti, principalmente a una novella italiana del trecento, Il Giannetto e il mercante di Venezia, di ser Giovanni Fiorentino. Ascoltando per la prima volta la commedia in cinque atti, si percepisce forte il senso di antisemitismo; soffermandosi con più attenzione sul testo, sorge al contrario la percezione di un sottile anticristianesimo. Accenti vibranti di umanesimo Shakespeare li mette in bocca a Shylock nella comparazione fra ebrei e cristiani, inizio dell’atto III. Ma solo per permettergli di giustificare la sua vendetta. Noi ebrei sopportiamo da secoli…il suo odio ha una motivazione molto più profonda della semplice perfidia o durezza di cuore, è di ordine economico e ideologico, prima ancora che religioso o storico. Nel Mercante di Venezia assistiamo al commercio e al baratto non solo di beni e delle merci, ma degli stessi sentimenti. In questa visione la figura dell’ebreo non è più centrale di altre, soprattutto di quella di Antonio. Belmonte, dove Porzia è “sacerdotessa” dell’amore, diventa allora uno spazio interiore più che un luogo geografico, dove ritrovare la serenità della coscienza e del vivere. Ma il drammaturgo inglese, con scettico sguardo, dubita della purezza delle intenzioni di un amore assoluto. Franco Branciaroli, dall’alto d’infinite capacità d’attore consumato, sovrasta la scena consegnando un grandioso Shylock. Delinea il personaggio come figura tragica più che grottesca, simbolo dolente e patetico di persona che vive ai margini di una società, finendo capro espiatorio delle contraddizioni di quest’ultima. L’attore milanese, nel suo travolgente approccio al dire teatrale, non teme di trascolorare la sua recitazione attingendo a cliché dell’ebreo sanguinario di vecchia scuola, per rimarcare aspetti grotteschi e di repellente malvagità che il personaggio porta nell’anima. Entra in scena non smentendo la fama di “esuberante”, e con inflessioni dai toni personalissimi fa palpabile l’odio per Antonio e la giustificazione dell’usura, resa in sensibile untuosità a contraddire il “pecunia non olet”: il guadagno è sempre benedetto. Quando non è un furto…La lucidità d’espressione, un caleidoscopio di sfumature nella sua voce bassa e screziata, gli “a solo” a voce sussurrata, sono scandaglio di un’anima rinserrata e cristallizzata in decenni di usuraica vita, unito alla preziosità di pause, che suonano profonda eco del detto. Schernito, il tono diviene beffardo: la sua carne?…Non dovesse nutrire altro, nutrirà la mia vendetta…Il tono di fa struggente e irato nella famosa scena della comparazione fra ebrei e cristiani, disperato per la perdita dei beni sottratti dalla figlia, maledizione antica del popolo ebreo che ora lo tocca personalmente.  Il tono di si fa tagliente innanzi al Doge, implacabile nello sviscerare sottili argomentazioni, che mascherano la lucidità dell’odio. Branciaroli diventa imponente nella forza e tenacia nel pretendere giustizia, solo contro tutti, a difendere la sua concezione del diritto – rigida quanto spietata- assurgendo a cupa grandezza, con passione convincente e potente espressività. Magica evocazione teatrale della complessità e miseria dell’animo umano. Piergiorgio Fasolo è un Antonio dalla sobria e accorata recitazione, di vecchio e sapido artigianato. Francesco Migliaccio, Salerio e un Doge accorato e paterno. Emanuele Fortunati, Solanio e gustoso Principe di Marocco determinato e boriosamente supponente. Stefano Scaldaletti presta a Bassanio un giovanile valore e qualche bella speranza. Lorenzo Guadalupi, Lorenzo spavaldo e tenero. Giulio Cancelli è Graziano dall’esagitata recitazione /mentre disegna il Principe di Aragona frivolo e vanitoso. Valentina Violo è Porzia non pienamente convincente, così come Dalila Reas è una Nerissa intemperante. Mauro Malinverno Lancillotto dalla spinta caratterizzazione e pur umano, mentre fa un Tubal composto e distaccato. Mersila Sokoli Jessica morbida innamorata. La regia e adattamento sono di Paolo Valerio che sceglie una movimentata regia, sottolineandola con ritmi musicali. Sono gli stessi interpreti che restano a popolare la scena, scandendo l’azione scandita con canti e balli, in cui i giovani attori si trovano a spendere energie fisiche accanto a quelle di parola, in due livelli di recitazione, a variegato contrasto con i due protagonisti. E danza finale, che suggella in leggerezza la morte di Shylock che, costretto a farsi cristiano, stramazza a terra dopo l’indesiderata quanto sacrilega comunione. Scabra e funzionale la scena fissa di Marta Crisolini Malatesta, agita su due livelli; spaccato di una Venezia lontana dall’immagine oleografica e per niente solare, là dove sembra riflettere le coscienze ora aride e pietrificate, ora volubili e inconsistenti, in cui il tornaconto è regola costante. Di gusto e di livello i costumi di Stefano Nicolao, sapienti luci di Gigi Saccomandi e appropriate musiche di Antonio Di Pofi. Successo caloroso, con entusiastiche accoglienze per Franco Branciaroli.

gF. Previtali Rosti

 

foto di Simone Di Luca
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