Al Teatro Argentina di Roma dal 10 al 15 gennaio 2023
A poco a poco i grandi scrittori neorealisti e drammaturghi del secolo scorso ci stanno lasciando ed i loro nomi restano scolpiti nella Storia Letteraria non solo per il loro valore etico ed ideale tramandato alla società che li ricorda con vivo rimpianto per la loro assoluta figura di primo piano, ma pure per le loro memorie a cui hanno affidato le proprie certezze insieme agli appunti di vita , riflessioni intellettuali e psicologiche, nonché dati biografici essenziali. Secondo questa tendenza e linea operativa in questa settimana il Teatro Stabile di Roma sta rendendo omaggio alla personalità del geniale autore Raffaele La Capria d’estrazione partenopea, deceduto centenario lo scorso anno non solo per la vecchiaia che l’aveva fisicamente provato, ma anche per il dolore d’aver perso qualche tempo prima la cara e diletta consorte, la versatile e brava attrice Ilaria Occhini. A lui che pubblicò il suo primo romanzo “un giorno di impazienza” a trent’anni nel 1952 con l’analisi psichica dell’inquietudini, turbamenti ed insofferenze particolari d’un singolo individuo nel corso di 24 ore, il maggior teatro pubblico cittadino ha rivolto un occhio di riguardo e rispetto per celebrarne il ricordo decidendo di mettere in scena il suo blocco d’annotazioni, appunti e frammenti sociali borghesi raccolti nel secondo dopoguerra e dati alle stampe nel 1998 con la Mondadori con il titolo di “Ferito a Morte”, quasi fosse un diario alla maniera di quello di Anna Frank. Prendendo a soggetto il tipo umano di Massimo, interpretato dall’impeccabile e signorile nel portamento e nell’espressività Andrea Renzi, il fecondo La Capria, che compose altresì sceneggiature e traduzioni per il teatro, saggi critici e filosofici, oltre alla ricca serie di romanzi, esamina qui la condizione di Napoli nella seconda metà del XX secolo nell’arco sempre d’una giornata nella mente raziocinante dei filosofi ed in quella degli altri borghesi ed intellettuali, professionisti , della città del Vesuvio che affollando i tavolini dell’osterie e dei bar, che c’hanno rammentato i caffè di Goldoni nel Settecento, esternano il loro malumore ed il lancinante tormento interiore provocato da una metropoli, la loro, sentita visceralmente, che dopo essersi battuta solidariamente con i soldati americani per la liberazione, tanto da essersi addirittura concepita la “tamurriata nera”, hanno perso dignità ed onore lasciandosi scalfire dalla camorra, corruzione ed ipocrisia dell’apparenze, rispetto a quando nell’800 erano nobili e mecenati per il latifondismo terriero e quelle manifatture di San Leucio favorite dai Borboni, nel cui sistema loro erano i “baroni”.Il flusso di coscienza da seduta terapeutica e psicanalitica inizia con il risveglio di Massimo sollecitato dalla cameriera, personaggio emblematico dell’antiche famiglie aristocratiche, mentre sullo schermo notiamo lo sciabordio delle onde marine che s’infrangono contro il litorale in un metaforico richiamo dello scorrere inevitabile del tempo concretizzato congiunturalmente con abile ideazione pluridisciplinare da Luca Scarzella. Da lì ,uscendo dalla mente di Massimo, si susseguono una miriade di quadretti con una ridda di personaggi che talora dialogano in vestaglia nel salotto di casa, altre volte sono sulle sdraio al mare oppure nei locali pubblici ciascuno al suo tavolo con delusione ed amarezza per la città divenuta così diabolica da spegnere tutte le loro aspirazioni e fastosi progetti, che l’Urbe partenopea ha divorato volgendosi verso il malaffare,il permissivismo e la concussione, non avendo più il grado civile ereditato dai coloni greci. In realtà si vorrebbe mantenere una patina di nobiltà di facciata e perbenismo d’immagine, ma il regista Roberto Andò ne mette a nudo il progressivo disfacimento con una depressiva inettitudine solitaria ai tavoli con camerieri che ruotano intorno o velleitari corteggiamenti seduttivi di belle signorine sensuali e civettuole con coreografici passi e balli da balere ideati da Luna Cenere. L’adattamento teatrale è stato suggestivamente curato dal filologo e storiografo Emanuele Trevi, mentre le scene da interno domestico e commerciale sono state disegnate da Gianni Carluccio ed i costumi degli anni sessanta portano la firma da “middle class” di Daniela Cernigliaro. Il romanzo rischia tuttavia d’intricarsi eccessivamente e vorticare su se stesso in quanto La Capria ne ha fatto solo un quadro di libere pennellate ed immagini schematiche senza un inizio ed una fine, che torna ad avvitarsi come una circonferenza su se stessa terminando com’era iniziata la trama associativa: con lo stropicciarsi gli acuti occhi di Massimo seduto sul bordo del letto. Ecco la molteplicità delle voci dei soggetti rappresentati con un’esistenza scialba ed inconsistente che evapora come le onde del mare, osservandola nel suo volersi fare, ma giudicandola poi con triste angoscia disperata da parte di coloro che sono stati disillusi da quanto non realizzato dei loro progetti e da come la cara città dei loro natali s’è mefistofelicamente ridotta in preda al caos, alla confusione, alla microcriminalità ed alla “guerra” spietata tra camorristi. Da qui il dialogo amaro tra Sasà e Massimo che denunciano tutta la passione sfumata ed il loro sincero disincanto, la catastrofica ed avvilente depressione frustrante ed annichilente, che li spinge a spegnere ogni ulteriore desiderio di riuscita e comunanza d’intenti, partecipazione civile, tanto da rinchiudersi in loro stessi con Sasà che rifiuta di passare la notte da Massimo, consolandosi a vicenda e da qui si spiega il titolo del romanzo senza spiragli di luce in prospettiva del realista La Capria, che nel dopoguerra dal 1945 ha scorto quasi un ricorso storico del secondo Ottocento verista di Verga e del teorico Capuana, simbolizzato a Napoli dall’omonima porta vicino alla Stazione Centrale. Perciò tutto, dalla città alla retorica iperbole dei personaggi ormai divenuti insulsi e fantasmi di quella che un tempo era stata la “crema” della popolazione napoletana, è fosco e nella figura lacerata dal dolore mortale si può intravedere l’immedesimazione biografica dell’autore dalle sensazioni e pulsioni definitivamente tramortite. La compagnia diretta da Andò s’è imposta non solo per la straordinaria ed efficace sinergia dimostrata nei dialoghi, bensì anche per gli accorati accenti e tristi toni desolati sentimentalmente in cui il protagonista ed i comprimari hanno fatto vibrare le loro corde vocali. Lo spettacolo sarà replicato allo Stabile di Roma fino a domenica prossima e già alla prima ha riscosso un notevole successo con il “sold out” della platea per un lavoro senza un ordinato filo narrativo e svolgimento a tema con epilogo preciso e deduttivo.
Giancarlo Lungarini