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Travolgente “Salome” di Michieletto

Data:

Al Teatro alla Scala, fino al 31 gennaio 2023

 Succès de scandale è il modo francese per significare che un successo, o buona parte di questo, deriva dallo scalpore prodotto dal tema dello spettacolo, più che dalla proposta artistica. Sembrerebbe contraddittorio sostenere come lo scandalo, possa poi tramutarsi in notorietà e a volte in trionfo. Si deve ricordare che questo può accadere, ma in tempi e luoghi particolari, come nella Parigi della “Belle Epoque”, immersa in un’atmosfera di vita così speciale. Non è un caso che il termine da lì tragga origine: la capitale francese aveva un “clima” culturale particolare, e osare un Succès de scandale in altro luogo sarebbe stato molto più rischioso. A Parigi, nel 1984, Oscar Wilde trova conferma con la sua Salomé, in cui ritrae il carattere principale quasi come un’amante necrofila. Ed è quello che accadrà a Richard Strauss che, dopo i modesti esiti delle prime due opere, osò giocare nuova strategia musicale: nel 1905 mise in musica il dramma d’Oscar Wilde. Opera in un atto, libretto tradotto in tedesco da Hedwig Lachmann, andò in scena alla Hofoper di Dresda il 9 dicembre. Il risultato fu in parte lo stesso, provocando un esito del pari scandalo, che si ripeté alla prima newyorkese del Metropolitan, dove la produzione fu sospesa dopo una sola rappresentazione. Vero e proprio caso musicale, Salome, fu bollata da Cosima Wagner come “Uno scandalo inutile coniugato a impudicizia”. L’imperatore Guglielmo II profetizzò che l’opera avrebbe “danneggiato tremendamente il compositore”. Leggendaria la replica di Strauss: “Con questo danno mi sono comprato la villa di Garmisch”. Sarà proprio Salome a rivelare Strauss al mondo intero e a farlo entrare, definitivamente, nel firmamento operistico. La partitura straussiana, per gli standard odierni, può sembrare “addomesticata”, ma al suo apparire assordò il mondo musicale, miscelando a una musica sensuale, l’avidità morbosa della principessa per Giovanni il Battista. Lo spettacolo della protagonista che si esibisce nella celeberrima (ma allora ritenuta infame) Danza dei Sette Veli esigendo la testa di Jochanaan come ricompensa, era un avvilimento morale dirompente e nuovo. La scena finale, su una musica che tocca vertici di tesissima sensualità, in cui Salome bacia la testa troncata in uno spasmo di passione, fu la goccia che fece traboccare il vaso, scandalizzando pubblico e censori. Marie Wittich, protagonista della prima di Dresda, trovò l’opera “disgustosa e oscena” acconsentendo che fosse una ballerina a eseguire la danza dei sette veli (salvo insistere in seguito per poterla fare, con imbarazzo del compositore, che la descrive priva di grazia…). I valori musicali e teatrali dell’opera ebbero, alla distanza, la meglio sull’ipocrisia. La fortuna italiana di Salome è legata anche a Milano, che si conquistò per poche ore il debutto nazionale; “soffiato” a Torino dove dirigeva Strauss. Dalla prima del 1906, diretta da Arturo Toscanini, si sono susseguite al Teatro alla Scala ben quindici edizioni a testimoniare il legame di preferenza che Salome ha con il pubblico scaligero, verso gli altri titoli operistici straussiani. Nuova la produzione (pur rappresentata una sola volta nel febbraio 2021, in un teatro vuoto per pandemia) vista in TV, ma attesa alla riprova in sala. Damiano Michieletto, conferma il suo discusso talento di regista firmando uno spettacolo fascinoso e pregnante, pervaso da un simbolismo onirico e drammatico. Coadiuvato dalle essenziali scene di Paolo Fantin, i rigorosi costumi di Carla Teti le nette e preziosissime luci di Alessandro Carletti, avvolge lo spettatore in un’atmosfera algidamente drammatica, in andamento sinuante nell’incombente finale conclusione. Ricorrenti tòpoi cari al regista veneziano: il raddoppio della protagonista nella figura di se stessa bambina, capelli strappati a svelare la vera natura della protagonista, etc. Momento sublime, in cui sentiamo tutta la forza e l’emozione del teatro, l’aver declinato la danza dei setti veli in lineari quanto pregnanti passi coreografici; danza non danza, ondeggiamento dell’animo piuttosto, pervasa da un senso di sopraffazione che porta Salome “in croce”.

E’ l’agitazione del personaggio a rendere febbrile e divorata la figlia di Erodiade: premio a lei sarà il grand soleil -ostensorio, recante al centro la testa del Battista. Una grande sfera sospesa incombe, quasi “pietra di scandalo” cui per un momento si aggrappa Salome, come a volersi elevare, per poi dirigerla contro gli ebrei ciarlieri, divisi nel loro santo credo, per metterli in fuga. Ma è la parola di Jochanaan, che sorge da un magico cerchio di fuoco recante l’agnello immolato, a irretirla da subito, prima degli attributi del suo corpo. Geniale trattamento Michieletto riserva a Erode, specialmente dove il Tetrarca arriva a stracciarsi le vesti, restando in povera seminudità; evitando la caricatura, il regista ritrae un personaggio degenerato, ma debole e persino accattivante per le sue debolezze, superba incarnazione della misera dimensione del male. Conturbante la parossistica presenza di angeli della morte, che versan sangue dal calice sull’Agnello mistico e sulla peccatrice. Meno perversa la soluzione del teschio baciato da Salome, quanto senza sorprendente teatralità la sua tragica fine. La protagonista Vida Miknevičiūtė capace di una grande prestazione: prestante e bella, si investe nel ruolo, passa la barriera del suono dell’orchestra, balla, gettandosi nel baratro del dramma senza la minima difficoltà, sia vocale sia scenica. Corre incessantemente da un capo all’altro del palcoscenico, si aggrappa alla nera sfera e reclama la testa eseguendo la Danza dei sette veli con maestria, non lasciando nulla inosservato mentre canta con tanta intensità. L’ottava alta è penetrante, i centri corposi, pur con suoni bassi non altrettanto potenti. Drammaticamente efficace sa andare oltre l’adolescente capricciosa e donna lussuriosa divorata da un desiderio irrefrenabile, più nevrotica che sensuale, sublimando la sensualità alla ricerca di un “altro”, superiore. Tentativo riuscito d’incarnazione di un personaggio non monolitico, ma di molteplici sfaccettature. Michael Volle disegna un Jochanaan illuminato e profetico, dotato d’interiorità a fronte degli incantesimi ammaliatori della seduttrice. Lo strumento è possente, tuonando di voce e di fraseggio, senza nascondere il corpo “bianco come la neve sui monti” che infiamma i sensi della principessa. Herodes era il tenore Wolfgang Ablinger-Sperrhacke probabilmente non è più al suo apice, ma molto efficace in questo ruolo. Uomo debole e libidinoso a volontà, ritrae il Tetrarca con drammatica accuratezza, servito da una voce da cui riesce a trarre colori al servizio del personaggio. Sebastian Kohlhepp presta Narraboth una patetica e inquietante presenza scenica, canta molto bene, dotato di voce e fisico seducenti che lo rendono un plausibile rivale di Jochanaan, accentuando la perversa crudeltà con cui Salomè si fa beffe di lui. Linda Watson nel ruolo non certo gratificante di Hérodias, offre una sufficiente interpretazione, pur con acuti spinti, pur lontana dall’imponente e sdegnosa figura della storia. Voce modesta di Lioba Braun, per il Paggio di Herodias; non irreprensibili e significative le parti minori. Axel Kober, alla guida dell’Orchestra della Scala tecnicamente irreprensibile, sfodera un’effusione orchestrale che esalta la sgargiante tavolozza straussiana con punte di parossismi sonori; capace di sostenere la tensione drammatica (struggente l’accompagnamento della scena finale) con efficienza; manca solo un guizzo di genialità. Un pubblico entusiasta saluta senza riserve i solisti all’uscita finale, con ovazioni per la protagonista, testimoniando il successo di questa serata, una delle più attese della stagione.

gF. Previtali Rosti

 

ph Brescia e Amisano

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