Al Teatro Carlo Felice di Genova, dal 31 febbraio al 8 aprile 2023
La storia de “I Due Foscari” è, potremmo dire, la storia del potere. Nella Venezia Rinascimentale Jacopo Foscari, figlio del Doge Francesco, è accusato di omicidio. In cuor suo, non soltanto la moglie disperata, ma anche il padre sanno che Jacopo non può essere colpevole, che non può essere un assassino.
All’apparenza però, le prove sono contro di lui. E, considerando che il delitto colpisce una delle famiglie che fanno parte del Consiglio dei Dieci, che fa capo a Jacopo Loredano, rivale del Doge, Francesco Foscari non può permettersi di essere, né di sembrare, indulgente nei confronti di suo figlio.
L’opera è ambientata a metà del XV secolo, ma tra le pieghe della narrazione si intravede lo spirito di due uomini dell’Ottocento: Lord Byron, che scrisse la tragedia, e Verdi, che la mise in musica. All’inizio del XIX secolo, sconfitto Napoleone, i potenti della terra si riunirono a Vienna, per otto mesi, e ridisegnarono i contorni dell’Europa che, all’epoca, ancora pareva, se non tutto il mondo, il mondo che conta.
E i potenti scelsero la Restaurazione; in Francia, simbolo della Rivoluzione, si rimisero le parrucche, e salì al trono Luigi XVIII di Borbone. Ma sotto la cenere covava un fuoco destinato a non spegnersi, che divampò nella storia e in Italia coi moti del 1848, la Repubblica Romana, il Risorgimento.
Nell’arte, forse per contrasto al clima che veniva imposto, forse come anticipazione di ciò che sarebbe accaduto, fu il secolo del Romanticismo, del rifiuto di ogni supina accettazione e di un orgoglio carico di sentimento: tanto Byron in letteratura quanto Verdi in musica, ne furono tra i principali esponenti.
E nella figura di Jacopo e Francesco Foscari, così come di Lucrezia Contarini, moglie di Jacopo, trova spazio una rabbia che, pur vittima delle circostanze, non cerca né accetta compromessi, ma grida la propria indignazione.
Il contrasto tra la macchina del potere e lo slancio degli individui diventa, in musica, il contrasto tra una singola voce, quella di Lucrezia, di Jacopo, di Francesco, e un implacabile, imponente, coro: il coro del potere.
La regia di Alvis Hermanis riporta al Carlo Felice di Genova un’opera che non veniva rappresentata nel capoluogo ligure da oltre un secolo, e lo fa con un taglio molto moderno. Salta all’occhio, ad esempio, il dinamismo della scenografia, i cui elementi mobili sembrano definire un campo di inquadratura ora più stretto, ad accompagnare le scene più private e autentiche, ora più largo, a sottolineare un senso di maggiore lontananza e freddezza, per i momenti in cui i personaggi si offrono alla folla e al pubblico giudizio.
Ciò che lo sguardo coglie, si riverbera anche nell’orecchio, con la musica di Verdi che, eseguita con grande partecipazione dall’orchestra guidata da Renato Palumbo, alterna, anch’essa, melodie che cedono alla dolcezza nell’accompagnare i momenti di confronto privato tra padre, figlio e nuora, a una musica imponente, a rendere vivo e quasi roboante, nelle occasioni di confronto pubblico, il contrasto tra ciò che pare, e ciò che è giusto.
Una scena alla volta, ci si ritrova ineluttabilmente a scivolare verso un doloroso epilogo a cui ci si ribella, ma che si percepisce inevitabile. In quel mondo, nel mondo dei due Foscari, non c’era, non poteva esserci, spazio per un ripensamento, e il destino, beffardo, trasformerà l’ingiustizia in irrimediabile tragedia. Poco prima dell’inevitabile il Doge Foscari, carnefice e vittima di se stesso, chiede e si chiede: «Che far?». E il coro, implacabile, risponde: «Obbedir».