Se fino al Seicento del “bardo di Avon”, ovvero il sommo W. Shakespeare, v’erano state guerre di successione e religione, come quella tra cattolici e protestanti di Lutero contro l’imperatore Carlo V o quella tra cattolici ed ugonotti in Francia che la regina Caterina dei Medici aveva fatto sterminare nella notte di San Bartolomeo del 1572 finché Enrico IV di Navarra era passato tra le fila dei seguaci del Papa sostenendo che “Parigi val bene una Messa” , lo scontro epico tra le principali potenze europee del Settecento conosciuto come “Guerra dei Sette Anni” tra il 1756 ed il 1763 non fu solo di religione per l’adesione alla religione riformata dei Paesi del Nord, ma anche di secessione e passaggi di domini coloniali dalla Francia e Spagna alle nascenti sfere d’influenza dei nuovi Stati dominatori dell’Inghilterra e Prussia. La Gran Bretagna ottenne i maggiori successi e conquistò diversi territori dell’India, dell’America settentrionale, il Canada lasciando ai transalpini solo il Quebec con capoluogo Montreal, i Caraibi, il Senegal e le sponde del MIssissipi con 13 colonie inglesi e 7 francesi. I soldati conterranei di Voltaire e Rousseau erano dunque sconfitti, depressi e senza più le loro ricche finanze per cui cercarono riparo presso alcuni benefattori del Paese dei formaggi, dei tulipani e della grande diga sul fiume Dam, da cui il nome della capitale Amsterdam, tra cui il facoltoso dottore Monsieur Filiberto, interpretato da un superbo Gabriele Lavia per andatura caricaturale ironica, tonale polifonia espressiva a seconda delle situazioni e cangianti stati d’animo legati alla magnanima generosità, poi alla sconcertata incredulità, al sordido rancore per l’inganno e l’ingratitudine ed infine al bonario perdono paterno con la lezione dei giusti modi e della verità nei rapporti tra genitori e figli, con quella sincerità con cui per esempio il fratello di Samà da Novellara ha confessato il truce delitto commesso dai suoi familiari nei confronti della sorella, per cui è arrivato ad odiare i genitori con la madre ancora irreperibile in Asia, con la raccomandazione della cautela e precauzione nel primario nucleo della società per il decoro ed il relativo onore domestico. Pertanto Monsieur de la Cotterie, incarnato da un giovane Simone Toni con ardore di sentimenti onesti misti a sorpresa ed emozioni allucinate per non capire quello che più grande di lui sta accadendogli, insieme al compagno d’armi Monsieur Guascogna, nei cui panni ed in una parte più ridotta si cala diligentemente Lorenzo Terenzi, cominciano a frequentare la casa del medico conoscendo la sua figlia dai toni dolci, bellezza affascinante e seduzione di tratti e gesti galanti ispirati dall’amore a prima vista per l’ardente la Cotterie, che tuttavia il padre non può valutare positivamente in quanto stanno precipitando nella miseria, non hanno voglia di combattere ulteriormente e lavorare. Ecco allora che la sublime Giannina, la stupenda fulva ed attraente Federica Di Martino sulla scena figlia di Filiberto e nella vita leggiadra e vezzosa consorte di Lavia, s’ingegna ad inventare una serie di pretesti e scuse per ingannare il padre, la strategia del raggiro furbesco e smaliziato che rinveniamo nella commedia “La cena delle beffe” di Sem Benelli oppure la sequela degli inganni e degli equivoci nei lavori classici di Menandro e Plauto, tanto che la domestica Marianna saggia e prudente, esplicativa della trama e della tresca ordita nel finale, immedesimata da Giorgia Salari, c’ha ricordato il fedele servitore del padroncino nell’autore di Sarsina teso a favorire l’unione dei cuori dei giovani ai danni dei vecchi caparbi ed ostinati, avari e recalcitranti, ad impedire il trionfo d’Amore. Ella per rimanere a Goldoni può essere equiparata a Colombina, mentre Filiberto è” l’alter ego” di Pantalone e dell’anziano sodale Riccardo, ricoperto come essere taccagno e collerico versoi cugini d’oltralpe da Andrea Nicolini uno dei due pianisti, l’altro è Leonardo che non interviene mai nella scena ideata quale un “teatro da camera” dallo scenografo Alessandro Camera dato che sul palcoscenico vi sono pure dei divanetti rossi per degli spettatori al fine di rendere un’atmosfera più ovattata ed intima di cotale storia vera. Dunque Giannina per coltivare il suo sentimento passionale per la Cotterie rivela al genitore che il giovane spasima per la cugina Costanza, impersonata come gelida rivale di cuore ed ansiosa aspirante a prender marito da Beatrice, nome dantesco classico, Ceccherini che prima non vuole capacitarsi del bacio della “dea Fortuna” arrisole, mentre il povero Cotterie non afferra al volo l’ordito dall’amata e resta costernato, favorito nel suo mentale smarrimento da Filiberto che sarebbe contento di fare un’opera buona togliendoselo dai piedi. Egli gli promette i soldi necessari alle nozze con azione benevola e continuo gesticolare con la sua palandrana marrone da studio medico sormontata da una sciarpa nera lunga, tentando successivamente di convincere messere Riccardo a favorire il matrimonio dando la dote a Costanza. Il suo amico anziano invece, aspetti che ci rammentano l’altra creazione dello scrittore geniale lagunare, teorico dell’impostazione prosastica concettuale delle sue opere sulla linea dell’”utile dulci”, ovvero il capolavoro minore de “I Rusteghi” prima dell’ultimo periodo in esilio volontario a Parigi con la composizione de “Il Ventaglio”, “Le Memorie” ed “ Il Burbero Benefico” simile proprio al soggetto protagonista della commedia che stiamo recensendo, è nettamente contrario per gli stessi motivi per cui lo sarebbe il patrocinatore, per restare nel lessico giuridico dei Romani, come gli fa aspramente notare il suo interlocutore al punto da venire alle baruffe, altro movimento iracondo che troviamo in Goldoni citando la stupenda cittadina di Chioggia somigliante per pianta urbanistica a Venezia, rotolandosi sul palcoscenico aggrovigliati l’uno all’altro. Non essendo in grado di convincere l’amico a rendere felici i supposti “piccioncini innamorati” Filiberto, il generoso e solerte personaggio chiave di Lavia, regala 500 ghinee a la Cotterie per finalizzare il suo creduto matrimonio con Costanza ricorrendo alla “fujtina” come si faceva un tempo in Sicilia per evitare il delitto d’onore, andando a prelevare la futura sposa in casa della zia Ortensia. Costanza è al settimo cielo ed ha indossato l’abito bianco nuziale, restando però costernata allorché non vede giungere lo sposo promesso in quanto Giannina ha ripreso i suoi panni di vera fidanzata, rientrando nel ruolo assegnatole dal copione, fuggendo lei con la Cotterie dala zia Gertrude, dopoché il padre ha bevuto l’inganno e s’è autobeffato , spingendo la figlia ricorrere agli estremi espedienti per coronare il suo sogno d’amore. Filiberto afferra troppo tardi la grave condizione in cui s’è cacciato e di conseguenza ce l’ha con la sua ingenuità favorita dalla cieca ed arrogante prosopopea, in piena iracondia e nevrastenia, dichiarando di non volerne più sapere dei due traditori dell’amore paterno. Può tuttavia un genitore essere adirato per sempre con i propri eredi? Oppure come stanno supplicando adesso le famiglie ebree, che hanno i loro discendenti ed eredi prigionieri dei terroristi islamici, Nethaniau di liberarli dal sequestro di Hamas, la rabbia dura lo spazio d’una notte e poi prevale legge del sangue, come in “Antigone” di Sofocle, disposta a perdonare tutto, come gli suggerisce anche il burbero Riccardo, che lui prega di salvarlo dall’onta della vergogna pubblica. Tutto è bene quel che finisce ottimamente con la purezza e la gioia dei cuori, celebrati già dai Sonetti e dall’ammonimento di Shakespeare, come dalle brillanti canzoni finali d’amore dello stesso Lavia, che ha curato la perfetta regia sinergica del lavoro della durata di quasi tre ore. Di questa storia vera fiamminga con l Paesi Bassi che avevano fatto denari patrimoniali con le battaglie del settennato, ma con il dover cedere il passo all’Inghilterra che aveva sostituito New York a New Amsterdam e costituito la Compagnia delle Indie Orientali ed Occidentali che avrebbero portato al Commonwealth, gli era stato riferito dai suoi amici olandesi al caffè della Sultana a San Marco, dove si riunivano gli Illuministi a discutere su tematiche scientifiche e letterarie; i suddetti ritrovi insieme ai primi giornali periodici quali i “Gazzettini” erano quelli che dovevano formare il popolo borghese e vi notiamo i fratelli Verri, Beccaria, Lombroso con tanti altri intenti a leggere le riviste specializzate in discipline colte del trivio e quadrivio : “Il Caffè”,” Il Politecnico” e “La Fiera Letteraria” di critica umanistica del Baretti. I costumi di Andrea Viotti riproducono questo diciottesimo secolo per una delle commedie poco sapute e rappresentate in Italia, la cui maschera emblematica creata da Goldoni ossia “Arlecchin Batoccio “di matrice orobica, “cieco da un orecchio e sordo da un occhio” compare sulla scena quale “servitor dei due padroni” per poi alla fine riverire il pubblico ed allontanarsi dalla sala in cui aveva girovagato sornionamente pure l’agitato Filiberto di Lavia, sigillando da par suo simbolicamente la “pièce” di Goldoni, che sarà replicata all’Argentina con viva briosità e frizzante didattica allegorica fino al prossimo 19.
Giancarlo Lungarini