Si pubblicano le liriche di Gabriella Cinti, seconda classificata alla sesta edizione del Premio di Poesia Pierluigi Galli.
Chissà se piangevi?
Chissà se piangevi, Dryopiteca piccolina,
a sillabare per prima l’aria di mani,
la conquista del cielo con gli occhi,
apparso per primo prodigio
nel varco dei tuoi boschi,
Ninfa del Miocene, chissà se piangevi?
Le viridate tue lacrime, il dolore scoperto
nel sale sulle labbra, a terra cadevano,
hai accolto così in te anche il pianto
delle tue sorelle di prima.
Trenta milioni di anni per assaporare
il soffrire come un sapore; più tardi,
cangiata in resina invetriata,
la dolente Mirra imperlerà di cera d’avorio
il pianto d’amore a te forse risparmiato,
Bambina Primate, cucciola di nostra forma.
Tra gli alberi batteva il tuo cuore,
i tuoi denti sonori ritmavano il respiro
in suoni di preparola.
E non so se piangevi, se capivi la musica della savana,
la voce delle conifere, l’intelligenza del silenzio.
Ne so quanto te del mistero dei rami,
delle foreste troppo spesso nemiche.
Quanti milioni di anni ha
la storia delle mie lacrime?
E tu forse per prima nel folto verde
le hai viste cadere, perle tue, non di pioggia
e hai distinto la rugiada dalla pena,
forse solo uno squittio più debole per nominarle.
Chissà se piangevi, tra tende di querce,
Tu che migravi di stato,
Tu minuta tra i giganti,
Tu che per gradi sottili pervenivi all’umano?
Mi giunge per sordo boato
di immani ere per te inesplorabili,
la voce del tuo pianto sconosciuto,
la transizione dei mondi avviata
oltre l’oceano abissale
richiuso sulle tue piccole spalle.
Nel mio, raccolgo le tue inconsapevoli
lacrime fossili,
i sospiri mai emessi,
l’amore che non hai potuto
neppure pensare.
Ma chissà se piangevi?
Mattino d’origine
Savana d’aria, l’alba di oggi,
esplosa come nel Cambriano,
l’ossigeno degli dèi
per i trilobiti, coloni della vita,
i primi occhi del mondo,
e per me, bipede sognante.
Il tempo del mito mi cinge ad anello,
polverizzate le gerarchie di memorie.
La cerimonia del respiro
simula il ritmo del volo a bordo
di nubi, per raggiungerti.
Nutro la parola di danze rosse, corniole
di suoni per sillabare l’origine.
Alle sette del mattino, il caolino del sogno
mi imbianca per rito.
Navigo la famiglia dei vivi
per intermittenze, lampi d’acqua
per il trasmigrare sacro
all’inizio dell’universo.
Aspersa di primordi, nuoto il tempo
tra totem liquidi ed estasi
di antichi oceani, fruscianti
dei primi sacri sussulti.
Trascendere a ritroso,
in Tuffo cosmogonico
nel cuore paleozoico dell’abisso,
a dirompere l’origine
nel prodigio supremo della forma.
Lana di parole
Lavoro a maglia le parole,
tinte di malinconia viola,
gioco d’autunno e lana
di poesia per i primi freddi,
ad intercettare filamenti di essenza.
Ma la cotta si fa scura,
oltre il tepore del filato,
oltre i sospiri caduti ad ogni giro
di verso, le maglie rimestate
a tessere i miei nodi
con parvenza di grazia.
Poi il dire diventa sapore,
i suoni montati a neve
scivolati soffici sulle lettere
E le sillabe stufate a fuoco
lento a profumare la pagina.
Ci si carezza così nelle domeniche di sottrazione,
fuochi e memorie, fornelli
come reductio di magici crogiuoli,
tu non appari dal forno
alchemico, nel giorno più refrattario
al prodigio, solo il silenzio
squilla di presenza, le cose
navigano piane nell’aria,
un fluttuare permanente,
ma non è una carezza.
Ne ho perso lo stampo, il nutrimento
e mi aggiro, come i primi organismi
viventi, senza ossigeno, a pescare
nella memoria ambra lucente
di tenerezza fossile.
Sgualcito il tuo sorriso, mi arriva tra ellissi
purpuree, nel novembre delle foglie.
Per raggiungerti trasformo
la tua esanime assenza
nel fumo di parole apertosi
nel più sperduto dei martedì,
incenso fragrante,
inesauribile d’amore