Al Teatro alla Scala, l’8 febbraio 2024
Il Teatro alla Scala, per la stagione dei Concerti straordinari, rimette in cartellone Alcina di Georg Friedrich Händel, vista l’ultima volta in forma scenica nel 2008/2009 con la regia di Robert Carsen. Dimenticato lo sfortunato episodio del debutto dell’opera del sassone sul palcoscenico del Piermarini nel 1985, è riproposta in “forma di concerto”. Indiscusso capolavoro della poetica barocca incentrata sulla meraviglia (vocale innanzitutto, ma anche strumentale e… scenica), Alcina è pura magia: la protagonista è una maga. Tra i primi, fortunati spettatori a vedere l’opera nel 1735 al Covent Garden di Londra, non pochi ricavarono l’impressione che lo stesso compositore, al clavicembalo a dirigere come si usava allora, fosse un negromante nel pieno dei suoi incantesimi. Sia chiaro, incantamenti musicali, cui è difficile resistere. Handel non amato, con nemici tra i cantanti, compositori e manager teatrali ma persino tra i nobili, che fecero di tutto per rovinarlo, si trova a fronteggiare la nascita della rivale “Opera of the Nobility”. Si organizzano concerti e balli per sovrapporsi alle rappresentazioni delle sue opere, si arruolano ragazzi con il compito di strappare i poster teatrali del musicista. E’ in questo clima che nasce Alcina, scritta in un tempo di ostilità, ma di cui nulla traspare in partitura, anzi è una delle più belle e fantasmagoriche opere scritte dal compositore. La sua punta di diamante è Giovanni Carestini, uno dei più famosi castrati del tempo, una “star” come si direbbe oggi: egocentrico come tutte le primedonne, esigeva che si componesse solo per far risaltare la bellezza e la brillantezza della sua voce, mettendo in risalto la sapienza della scaltrita tecnica vocale. Fu così sorpreso di trovare in partitura un’aria (il larghetto Verdi prati) dall’andamento calmo e quasi malinconico che rispedì la partitura al compositore. Furioso, Handel si fiondò dal capriccioso cantante per intimargli che non sopportava opposizioni e che era lui a dire cosa dovesse cantare. Alcina è opera seria, ossia con protagonisti importanti dall’elevato rango sociale o fantastici, con nessuna connotazione plebea, strutturata essenzialmente nella successione di arie – momento privilegiato in cui si cantano affetti e sentimenti – ripetuti poi nei da capo fioriti e variati. In Alcina l’azione ha luogo in un regno incantato, che in quest’edizione in forma di concerto sarà evocato dalla musica e dal canto. Il libretto è ricavato dall’Orlando furioso dell’Ariosto, poema epico per eccellenza del nostro Rinascimento, pur adattato alle esigenze di un pubblico settecentesco. A dirigere il capolavoro di Händel è stato invitato il Direttore Marc Minkowski alla testa del complesso da lui fondato, Les Musiciens du Louvre. Interessante e omogeneo il cast, dove spiccavano Magdalena Kožená e Anna Bonitatibus. Magdalena Kožená era Alcina intensa e variegata, intelligente interprete piegando le fioriture in senso espressivo. Omogenea nella gamma vocale ricorre a qualche artificioso ingrossamento dei bassi; fa purtroppo difetto la mancanza di un trillo sonoro. Dì, cor mio, quanto t’amai è offerta con padronanza di stile e voce mentre, in Si son quella, si fa struggente, con belle filature e fluida omogeneità. Ah mio cor con preziosa “messa di voce” fa sentire lo strazio dell’abbandono, seguito dall’impeto della parte centrale, quasi drammatica, in cui la cantante s’impegna allo spasimo, Qualche segno di stanchezza nell’articolato recitativo di Ombre pallide, dove tende a spingere incrinando la linea vocale e ricorrendo ad artificiosi suoni gravi. Ma quando tornerai è elegante, pur con segni d’incrinatura della purezza vocale. In Mi restano le lagrime trova accenti dolenti di puro patetismo, inficiati con qualche forzatura. Chiude bene la serata nel terzetto Non è amor, né gelosia, godibile per la perfetta fusione delle voci. Anna Bonitatibus riesce, con timbro non particolarmente allettante e solo discreto nel volume, a scolpire un Ruggiero sfaccettato. Dalla coloratura vertiginosa Di te mi rido, pur con variazioni di gusto non esaltante. In Quel celarvi e Qual portento incanta con struggente messa di voce e per il sottile fraseggio. Mi lusinga il dolce affetto dagli evocativi piani e pianissimi a creare una magica atmosfera. Mio bel tesoro di gran professionalità, con sognanti pianissimo. Eccellente in Verdi prati, selve amene mostrando maturità d’interprete, con pianissimi di fascino e ammaliante chiusa a filo di voce. In Sta nell’ircana sfoggia brillante vocalizzazione di forza su tempi vertiginosi che non le lascian tregua neppur nella sezione centrale, in gara di bravura tecnica: salutata da un’acclamazione del pubblico. Erin Morley è Morgana, coquette in O s’apre al riso dalla pulita linea vocale, cui tocca l’aria più famosa dell’intera partitura Tornami a vagheggiar in cui si impegna sicura, con flautate salite in acuto, pur non spiccando per sensualità di timbro; discreto il gusto delle variazioni, eseguite con precisione, che le meritano una salva di applausi. Ama sospira è alta routine. Credete al mio dolore è intrisa di patetici accenti. Elizabeth DeShong è Bradamante di bel timbro contraltile, che non ricorre a escamotage di sorta per far risuonare il registro basso, ampio e vellutato, ben messo in mostra in E’ gelosia; impeccabile nell’agilità di forza, ben saldando i due registri. In Vorrei vendicarmi gareggia senza tema con i rapidissimi tempi staccati dal direttore (già nella prima sezione dell’aria!) con un ottimo “legato”, cui fa seguito la parte (esageratamente larga) in cui si apprezza il timbro vellutato contraltile. La ripresa, se possibile, è ancor più veemente: con la chiusa in acuto, mostra la sua notevole estensione vocale. Meritata l’ovazione che la premia. Coglie infine ultimi allori con All’alma fedel, resa con struggente intensità. Valerio Contaldo è Oronte impetuoso nel suo dire e un po’ esagitato, sporcandone la resa vocale; preferibile nei tempi lenti di Semplicetto a donna credi ma la fonazione suona “aperta”, ben presente nel giostrare il ruolo ma calpestando in parte la fioritura vocale. In E’ un folle e fido affetto tende a spianare la coloratura: volenteroso ma impreciso nell’affrontar quella di forza, riesce meglio nell’aria Un momento di contento dai tempi più lenti, a meglio curare espressività e suono, pur con sbiancature, più che reali mezze voci. Alex Rosen offre a Melisso un piacevole e rotondo timbro di basso, suono che tende a stringersi quando sale in acuto. In Pensa a chi geme, fa risuonare il bel registro grave. Aloïs Mühlbacher, Oberto dalla dizione un po’ amorfa, risolve Chi m’insegna, anche se la coloratura è solo discreta. In Tra speme e timore si disimpegna e suscita entusiasmo, chiudendo la sua serie di arie con Ma presto ti vedrò in fissità di suono. Marc Minkowski si fa apprezzare per l’eleganza, il brio e l’energia dispiegata nella conduzione che alla lunga si mostra compassata e poco sensuale: scarsi i coinvolgimenti di vera passione perché la teatralità latita, quasi si trattasse di un Oratorio e non di una rappresentazione scenica, per quanto in forma concertistica. Accoglienza entusiastica per tutta la compagnia di canto e il direttore, da parte di un pubblico caloroso.
gF. Previtali Rosti