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Raul Zúrita, Questo non è il sogno, questo è il mare (Este no es un sueño,este es el mar). (La Vita Felice, Milano, 2023)

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Finalmente anche nel nostro paese l’attenzione nei confronti della poesia di uno degli autori più autorevoli non solo del SudAmerica sta dando i suoi frutti importanti. Parliamo di quel Raul Zúrita, poeta cileno di Santiago, eppure non solo per parte materna d’origine italiana ma anche per diverso tempo negli anni novanta del secolo scorso addetto culturale dell’ambasciata nel suo paese a Roma. Merito tra gli altri anche de “La Vita Felice”, casa editrice milanese, nella cui collana ispano-americana a cura della sempre brava e attenta Cinzia Marulli con Mario Meléndez e nella traduzione di  Emilio Coco è uscita  da poco questa sorta di antologia che qui andiamo a presentare. Figlio di un racconto, per restare nel Cile, dei cui padri, e madri, ai più nella risonanza sono, restano familiari i nomi di Huidobro, Mistral, Neruda certamente e il Parra delle antipoesie, nel 2023 ha ricevuto la meritata candidatura a quel Premio Nobel che se per certi versi non sempre ha operato scelte opportune o pienamente condivisibili per altri ha avuto ed ha il merito di ampliare il raggio di interrogazione circa una scena letteraria spesso tra le maglie di una visione sovente ristretta, sovente lontana dalle urgenze, dalle istanze negli echi dei più diversi mondi. Echi ai quali lo stesso Zúrita di contro non è stato indifferente se già sul finire dello scorso secolo segnalava, profetizzava a fronte di un occidente addormentato, privo di stimoli adeguati, la sopravvivenza della parola solo laddove, come nelle aree maghrebine e mediorientali, o dell’esteuropeo e della stessa America latina, risultasse possibile ancora nella sua tensione con la materia ricreare uno status iniziale e dunque autenticamente interrogante e non restaurante dal punto di vista tematico e semantico. Parola e materia cui lui ha offerto il corpo come vedremo, i corpi nella storia personale che delle altre storie si fa vicenda perché vicenda nell’universo di negazione e cancellazione che con lui migliaia di altri suoi connazionali, con i familiari, da quel fatidico 11 settembre del 1973, giorno dell’arresto a Santiago del presidente Allende, hanno patito e subito nell’oltraggio delle più, a vario titolo, diverse morti.

Questa stessa antologia ne è fedele e dolorosa testimone restituendo nell’intero corpus una poesia in lotta coi demoni di una sfigurazione cui la geografia di ghiaccio della terra incorporandone gli strazi e le membra non addomesticate della memoria fa della inabilità dell’uomo con se stesso simbolo di un rigurgito cui la storia non cessa di nutrirsi, il Cile allora teatro, spettacolo di un mondo, del mondo allora sì alla fine di se stesso (“Se parti dei dati della tua esistenza, molto probabilmente tocchi i dati dell’esistenza di tutti). La potenza di Zúrita,  autore modernissimo e classico insieme, nel valore di uno sguardo cui strattonando, rivoltando, diveltendo nei suoi più diversi timbri nulla sfugge (lui venendo tra l’altro da un dialogo ininterrotto con il nostro Dante come nella trilogia Purgatorio, Anteparaíso e Vida Nueva, in un viaggio dell’esistenza tra la natura e la tragedia della sua terra) è tutta in questo intreccio di affondi nella psiche di un evento incancellabile perché ancora e per sempre alla sua dipendenza, e dunque in una salvaguardia impossibile, e la sua condivisione nell’appello che dai suoi cieli, dai suoi carghi di uomini e donne al macello dai raduni coatti degli stadi cercano ancora almeno nome, quando al contrario al rigetto di una non riconosciuta esistenza che sconfessa se stessa. Sotto gli occhi di un dio che non guarda, non ode e dunque non ama, volendo seguire la cadenza di alcuni dei versi più noti, la sua non può che essere affrontata come un’ opera totale nella tonalità di accenti e strumenti come accennato diversissimi andando anche ad abbracciare in performance come strumento espressivo l’uso del corpo nella denuncia delle violenze di Pinochet o quello via scia d’aerei della scrittura nei cieli e gli esperimenti su roccia nel deserto del Cile. Ed è sul rapporto proprio con la natura e della natura con la storia che è bene forse insistere, una natura mai indifferente quella con cui il lettore si imbatte ma con uno spazio ora divorante e complice ora assassino ed ora restituente e accogliente seppure nel magma delle sue digestioni, spettatrice e attrice insieme di un’umanità respinta, assemblata nei suoi mari e nei suoi cunicoli, nelle sue acque mai amniotiche perché non c’è rinascita, non c’è sogno come da titolo ma deposizione cui l’uomo in ultimo può far valere nell’invocazione il proprio sacrale abisso solo nella morte forse, i caduti estratti dalla terra increspando, facendosi essi stessi, nel pianto condiviso degli elementi, dalla marea pianura “nel paese dei vulcani/e dei deserti, delle spiagge e dei ghiacci, dei laghi e/dell’oceano”.

Un nome quello di Zúrita da subito, dal suo primo apparire davvero unico nel suo paese, di cui se Marjorie Agosín già ebbe a sottolineare “la voce mitico poetica di registro profetico ed elegiaco”, Osvaldo Rodriguez calcandone il carattere ricreativo di una nuova visione del Cile ha avuto poi modi di illuminarne i toni biblici e la visione messianica marcata dal dolore, non esente “da una utopica concezione dell’universo”, senza dimenticare in queste brevi testimonianze critiche le parole di Jaime Quezada a proposito del drammatismo orale del salmo, della retorica della mistica unite all’ironia del colloquio popolare. A cui si aggiungano, come è possibile in queste pagine riscontrare, in una sequenza quasi naturale gli intrecci tra mito stesso (la guerra di Troia) e una contemporaneità   (in affinità con Hiroshima) a indicare appunto una universalità estirpata, esplosa nel suo mare di cenere e sangue, il dio ancora non sentendo non vedendo, non spiegando. Immagini potentissime, parole potentissime allora, come innumerevoli funghi atomici raccolti in una sola pelle, quello del bambino (di tutti i bambini) nei cielo bruciato all’alba, a salire tutti “come piccoli soli” (si legga Il mio dio è fame). Eppure proprio dove la narrazione assume quasi il vertice apocalittico dell’assenza, della lamentazione, del Salmo dove l’uomo addirittura rischia di non avere più terre da poter cantare nelle sue nostalgie, proprio là la scrittura (da Zúrita intesa il suo “esercizio privato di risurrezione”) nel suo grido la vita ritrova, tocca la sua identità più profonda e si rimemora nella speranza. Da qui andiamo a concludere questa nostra breve lettura legando senza retorica questo grido e questa speranza nell’intento d’azione a quanto nei punti più disparati e tragici della terra va rischiando di perdersi, noi tutti a spegnerci nell’umano vinto negli altri. Segnaliamo infine, doverosamente, solo un’altra pubblicazione di Zúrita, di poco precedente (2021) uscita nel nostro paese, Inri, per i tipi di Edicola di Ortona.

Gian Piero Stefanoni

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