Una delle più gravi malattie del mondo attuale è lo stress psicologico, l’insoddisfazione della propria vita ed il non sentirsi realizzati pure sul piano fisico per cui spesso, specialmente tra i giovani, si ricorre alle nuove sostanze allucinogene oppure si cede ai mali estremi e contrapposti della bulimia ed anoressia, che nei casi più eclatanti provocano morti sconvolgenti o gesti tragici. La constatazione è talmente vera che nel 2020 l’OMS, per cui ora il COVID è cessato, dichiarò siffatta patologia la più alta nel mondo e perciò l’acuta sociologa e scrittrice Lucia Calamaro ha creduto di dover ripescare e riproporre al pubblico un suo vecchio testo di 15 anni or sono, che è sempre più attuale in quanto si reputa che nel 2030 il problema assuma proporzioni gigantesche per la riemersione globale di quelle cause che già agli inizi del XX secolo si manifestarono con le motivazioni oggettive alla base dei capolavori di Rosso di San Secondo, Pirandello con “ Marionette che passione” il primo” e “il fu Mattia Pascal” il secondo, per non citare l’inettitudine sveviana de “La Coscienza di Zeno”. Le ragioni sono : alienazione, emarginazione, traumi e complessi interiori, paure economico – sociali, dipendenze eccessive dai “mass- media”, disoccupazione crescente. Tutto ciò viene considerato nel lavoro drammaturgico della Calamaro che lo ripropone con nuovi attori nella certezza che con la stima e la ritrovata fiducia in se stessi dalla patologia si possa uscire con il supporto professionale dello psicanalista ed il rinnovato contatto umano e confidenziale con i familiari. Tale sua convinzione ce la manifesta nel personaggio chiave di Concita, la collega De Gregorio che nei panni della brillante attrice si mette alla prova con vitale dinamicità e gioia rigeneratrice della sua freschezza fisica, avendo a fianco altre due figure di rilievo come la mamma di cui Lucia Mascino tratteggia una personalità vecchio stampo borghese, che con la sua autorità la richiama alla bellezza della vita ed alle sue responsabilità, colpendola sulla guancia come il padre di Zeno schiaffeggiandolo faceva con lui con una reazione adirata del giovane protagonista, che poi si sarebbe pentito, nonché la figlia Alice Redini che funge anche da dottoressa di psicanalisi per quelle sedute d’indagine psichica che leggiamo sempre in Zeno, il cui manoscritto sarebbe stato pubblicato dallo specialista per non essere stato pagato della sua parcella ed una certa superficialità esosa di tali medici viene censurata nel terzo atto della commedia. La spinta seduttrice della Calamaro è stata la molla che ha indotto la De Gregorio a rinfrescare la passione giovanile per il teatro e mettersi di nuovo in pista con energia convinta per superare il momento di crisi che stava attraversando, dopo essere uscita da una grave sofferenza, così da recuperare la voglia di vivere per il suo personaggio, superando incertezze , fragilità e paure che la stanno distinguendo sempre più, impedendole di uscire di casa per rinchiudersi nelle sue sicurezze e bulimie con cui si sfoga davanti al frigorifero cercando ciò di cui ha desiderio, mentre la figlia la rimprovera e poi, evocando oniricamente la psicanalista nell’angolo della scena destro, quasi sia un vero e proprio studio professionale, le dà consigli terapeutici. Si può affermare che il testo sia attagliato sule tre forme femminili della rappresentazione con tre età distinte della donna e non viste in un solo quadro pittorico come “Le tre età della donna” di G. Klimt, avendo la regista scelto di mantenere i loro stessi nomi per la recitazione. Emergono solitudini, psicoastenia ed incomprensione del mondo esterno per cui la prostrazione cresce in modo spaventoso finché qualcuno a non riesce a smuoverci dal nostro letargico immobilismo ed è proprio quello che fanno la figlia, che alla fine con la sua arricciata pettinatura diventa una hippy, nonché la dura ed esasperata madre quando nel secondo atto gli elementi della scena sono la lavatrice ed i fiori secchi come le gerbere, i girasoli e le palme che Concita vorrebbe innaffiare, senza il richiamo alla realtà della madre. La Calamaro ci fa prendere coscienza che talvolta la depressione è lenta, ci si opacizza mentalmente e virilmente a poco a poco, mentre in altre occasioni esplode all’improvviso il male oscuro e si è impotenti ad ogni reazione. L’unica sicurezza e confort ci sembra la casa fino a quando l’operazione risveglio alla vita con i legami familiari ed il consiglio specialistico, la guida terapeutica dello psicanalista, non dia i suoi frutti e restituisca u n senso vivo e pieno al nostro esistere. Nella prima fase è stralunato e digressivo il diverbio dialettico tra la madre e la figlia che non si trovano d’accordo su niente in un tentativo di conciliazione che ancora non va a buon fine e le rinchiude ancor più a riccio in loro stesse. Nel secondo atto poi la mamma e nonna non solo urla, biasima e dimostra atavico buon senso, ma cambia e rivoluziona la gestione della casa come” Giano bifronte” cameriera e padrona che non fa più trovare niente al posto suo a Concita. Alice invece nei panni della figlia racconta il suo drammatico formarsi tra le distrazioni della madre ed un nonno Adolfo sessuomane e cacciatore di donne piacenti, che alla fine s’era suicidato lasciando una lettera alla nonna. La nonna cattolica bigotta aveva superato il dramma con la sua Fede e l’amore per la casa, elogiando i suoi canovacci ricamati. Finalmente nel terzo atto abbiamo la lenta e titubante resipiscenza di Concita che si mostra stanca della psicanalista che non l’ascolta più e vorrebbe liquidarla in dieci minuti in quanto Concita no parla più , non si fida e diventa un dialogo tra sordi, mentre noi udiamo i loro pensieri e reciproche lamentele e rimostranze dopoché Concita è stata tutto il pomeriggio davanti all’armadio per decidere che cosa dovesse mettersi. Siffatto meditare, il ripristino della sua razionalità, indurrà Concita a rompere il rapporto professionale con un po’ di dolore poiché adesso sarà sola a dover lottare contro i propri preconcetti e pregiudizi per reinserirsi nel mondo , mentre sua figlia con la nuova attraente capigliatura arruffata le chiederà i soldi, la paghetta, per aver sostenuto pure il sognato doppio ruolo dell’analista con cui confrontarsi. Dunque questo lavoro s’aggiunge egregiamente alle precedenti riflessioni della Calamaro sul nostro tragitto esistenziale e la fine universale ;infatti in “Tumore “ e nel secondo pamphlet “La vita ferma” aveva analizzato con una scrittura popolare ed altresì lirica , il vero poetico manzoniano e la nozione sanitaria del dolore , la morte ,mentre qui esprime la convinzione che dalla “tanatos” interiore e non fisica si possa uscire con una ferma volontà. Finalmente Concita ha ricomposto l’unità di Ego ed Es, la sua integra personalità, favorita pure dal ruolo giocato dall’empatia affettiva della figlia che ha incarnato anche la dottrina scientifica della psicanalista, mentre la saggezza pratica e sperimentata della vita quotidiana è stata incarnata dall’arcaica e sprezzante, arcigna, grinta di “cervello fino e scarpe grosse” della madre, quasi uno “sparring partner” sul ring. Qui gli altri hanno una vita diversa, più normale e simbolizzano vari tipi di ansie e tipi con cui ci troviamo a relazionare ogni giorno :rivali e parenti con legami, limiti, vantaggi e problemi, discussioni ed opportune talora ancore di salvezza, come in questo caso. Lucia Calamaro ha curato perfettamente lo scavo psicologico e le diatribe sentimentali e neurologiche dei personaggi, gli arredamenti della scena nei tre atti, inserendo come novità rispetto alla prima programmazione teatrale del lavoro scandita dall’ironia il passaggio alle competenze sanitarie, alle dottrine contemporanee in materia e ad una sottolineatura dell’importanza delle cure passionali dei parenti per il debole malato. Codesto coinvolgente ritratto di una donna senza qualità alla Musil in un interno sarà replicato all’Argentina fino al 28 marzo.
Giancarlo Lungarini