Di Gino Morabito
Ha debuttato sul palco in “Jesus Christ Superstar” e sul grande schermo in “Malèna” di Giuseppe Tornatore. È stato anche Capitan Uncino a teatro, ma il pubblico lo ricorda per i ruoli televisivi legati ai polizieschi e al crime. A cinquantacinque anni compiuti, Claudio Castrogiovanni sente di poter finalmente avere accesso a tutto ciò che è la recitazione. Un percorso professionale che svolta verso il cinema indipendente e d’autore.
Dal 27 marzo al 17 aprile, in prima serata su Canale 5 accanto a Giusy Buscemi e Giorgio Marchesi, nelle vesti dell’ispettore capo Spanò in “Vanina – Un vicequestore a Catania”.
L’attore torna nella sua città per la nuova miniserie tratta dai romanzi di Cristina Cassar Scalia. Com’è stato girare sul set?
«Ho provato grande stupore. Riaffioravano dei ricordi di me bambino con la mia famiglia. Rivedevo quei luoghi che ho tanto frequentato nella mia infanzia e nella mia adolescenza, riscoprendo una città con una bellezza estetica e fotografica meravigliosa. Perché Catania non è solo lo sfondo della serie televisiva ma una vera e propria protagonista.»
Interpreta un ruolo diverso da quelli che ricopre di solito. In un rapporto anche ironico e scherzoso con la protagonista Giusy Buscemi e che tende a dissacrare le situazioni emotivamente più profonde con l’umorismo. Un tipo di narrazione lontana dalle precedenti.
«Sto cercando di allontanarmi da quei personaggi che sono stati presenti nella mia carriera televisiva e cinematografica. È ovvio che persiste ancora la fascinazione verso il dark side, ma oggi sono più interessato a raccontare la vulnerabilità, la leggerezza, l’ironia, l’arguzia, la sagacia. Caratteristiche che sono proprie dell’ispettore Spanò e che sento molto vicine a me.»
Ha fatto un grande lavoro per affrancarsi dalla sua provenienza. Teme che possa diventare una gabbia da cui sarà sempre più difficile liberarsi?
«Penso che le gabbie, che ci costruiamo attorno, non esistano ma dipendano da noi. Credo piuttosto nella capacità di migliorarsi e nei risultati che si ottengono con il proprio lavoro. Come quello che, con molta fatica, tenacia e pervicacia, ho fatto sul dialetto e quindi sulla pulizia della lingua italiana. Sentendomi parlare, potrebbe anche non dirsi che sono nato a Catania, dove ho vissuto fino a venticinque anni. E questa è diventata una mia “skill”.»
Ha via via affinato il percorso di conoscenza umana, che ognuno di noi dovrebbe intraprendere. Ancor di più se si maneggia una materia che ti fa entrare nelle vite degli altri.
«Agli inizi della carriera, forse, ero più preoccupato di far bene; oggi non mi occupo affatto del giudizio altrui. Attraverso lo studio e l’approfondimento, provo a costruire il mio mondo e quello del personaggio cercando il più possibile di vivere ciò che succede intorno a me.»
Cosa significa per lei recitare?
«È un momento in cui si rivelano pezzi nascosti di sé. Il paradosso è che quando sei nelle vesti del personaggio che interpreti, la struttura formale di vita che hai costruito negli anni dà il permesso di uscire più facilmente a quelle che sono le tue schermature, consapevolezze, rigidità, debolezze. Questo è secondo me recitare.»
La profonda amicizia con l’attore palermitano Gaetano Bruno e la stima nei confronti del regista Pasquale Scimeca sono state determinanti per farla tornare su uno dei suoi ruoli più noti, quello di Luciano Liggio, nel film “Il giudice e il boss”. È chiaro che il viaggio da “Il capo dei capi” nel 2007 a oggi implica una diversa prospettiva. Quale in particolare?
«Oltre all’efferata ferocia con cui portava avanti gli affari di Cosa Nostra, mi interessava raccontare qualcosa di Liggio che fosse più attinente alla sua vita privata, a quei momenti più intimi delle relazioni umane.»
Intanto lo sguardo di Claudio Castrogiovanni si posa su una “spiaggia di vetro”. Come quella della pellicola di Will Geiger ambientata sullo Stretto di Messina.
«Sono stato imbarcato su una barca di pesce spada. A cavallo tra Reggio Calabria, Villa San Giovanni, Scilla e tutto quel panorama che meriterebbe di essere patrimonio dell’Unesco. Immerso in una storia meravigliosa che, pur essendo stata scritta da un americano, non è il solito cliché della Sicilia.»
La possibilità di ritrovare quei luoghi che le risuonano nell’anima, toccando le corde della felicità.
«Recitare il mio personaggio è stato un dono. “Spiaggia di vetro” è un progetto a cui tengo particolarmente. Sono legato alla sceneggiatura e all’uomo che l’ha scritta, Will Geiger, che è pure il regista. A tutte le vibrazioni che ha determinato dentro di me leggerla e poi lavorarci.»
I legami sono la nostra forza, ciò da cui traiamo nutrimento. Con quali valori è cresciuto?
«Sono sicuramente quelli della correttezza e dell’onestà, del non danneggiare gli altri e di una cura maniacale dell’amicizia. I miei genitori mi hanno insegnato che poteva suonare a mezzanotte un manipolo di amici, anche quando loro erano già a letto, chiedendo di fare una spaghettata aglio e olio. Accoglievano dieci, quindi persone serenamente, e il giorno dopo si lavorava.»
Un’epoca diversa da quella in cui stanno crescendo i nostri figli.
«Sono le parole di un dinosauro ormai, ma prima c’era ovviamente meno attrazione elettromagnetica da mille altri poli. Adesso, per noi genitori, si tratta di un compito diverso. Estremamente difficoltoso, che ha a che fare anche con fattispecie molto complesse. Purtroppo non ci viene dato il manuale, e ci affidiamo all’istinto.»
Com’era da piccolo?
«Guardando indietro a quel ragazzino che ero anch’io, oggi mi direi: “Sii meno catanese!”. Nel senso del vulcanico, focoso, ribollente. Sono sempre stato un po’ “‘ncazzusu”, veemente nei confronti di quanto, ai miei occhi, sembrava stortura o ingiustizia. La verità è che dovrei prendermela meno, respirare, godere di tutte le meraviglie che mi si offrono dinanzi.»
Ma, come si dice in Sicilia, chi nasce tondo non può morire quadrato.
«Sì, è vero. Tuttavia l’accettazione della propria natura ci fa vivere la vita più semplicemente. E questa è un’enorme conquista.»