New York – un appartamento sulla 57 strada – notte
La moglie Ann sta preparando la cena. Almeno ci prova, “gli spinaci pulp” non promettono bene.
Peter è seduto in poltrona. Ha tutta l’aria del bravo marito, gentile, di bell’aspetto, tranquillo. Ma… non ama essere disturbato mentre legge (fa l’editore di manuali, cosa c’è di più eccitante?). Che cosa potrebbe accadere di tanto sconvolgente da scombussolare la routine di questa coppia benestante, con figlie, pappagalli, e gatti?
Ann
“Dobbiamo parlare”.
La battuta, tra il gentile e il risoluto, spiazza il torpore di Peter, ma dopo un po’, non subito. Lui di solito reagisce al rallenty. Non ama essere disturbato, Ann dovrebbe saperlo. Quel manuale sembra affascinarlo, forse invece lo annoia (sta pensando ad altro?) ma lui è una persona educata, troppo educata per darlo a vedere.
Si toglie gli occhiali. Guarda la moglie che lo ha interrotto ma è troppo educato e amorevole per far trapelare la sua gentile irritazione.
Peter:
“Dobbiamo parlare?”
Lei vuole parlare, lui no. Non vorrebbe. Non ora, non domani, meglio mai. Ma ormai è fatta. Il tono di Ann non ammette più il silenzio. Tra un falso problema e un altro, Ann comincia a sfogarsi, portando alla luce tutto quello che, secondo lei, non va, riguardo al loro rapporto fisico. Ann, dopo anni di vita coniugale, vorrebbe ancora sentire il brivido di quei primi momenti, la passione che brucia i corpi e accende i pensieri, le fantasie. A lui va bene così. Va bene così?
Ann
“Sei bravo a fare l’amore. A scopare fai schifo”
Peter rimane colpito. Offeso?
Peter
“Pensavo che ci amassimo in modo gentile e civile, che volessimo veleggiare su una nave sicura…”
Sì, sicuramente, ma tutto questo ha soffocato l’animalità del loro rapporto, ha nascosto gli istinti sotto la routine, la patina del tempo, i cambiamenti inevitabili.
Lei vuole un marito “meno per bene”. Vuole un animale che la prenda con brutalità, vuole che lui le faccia del male. Secoli di cultura hanno portato dei profondi cambiamenti nei rapporti tra uomini e donne, non sono più quelli delle caverne che sbocconcellano pezzi di carne mezza cruda, o vanno in giro con le pelli di leopardo. Ora ci sono forchetta e coltello, ci copriamo per decenza, e col tempo, l’amore non si infiamma più di quel sesso selvaggio e senza limiti. Ci siamo civilizzati, ma non abbiamo dimenticato del tutto quello che eravamo.
Edward Albee ci mette davanti a una storia apparentemente banale, una scenetta a due di una tranquilla e gentile famiglia borghese. Tutto appare liscio e perfetto. Ma sotto quella patina di tranquillità covano i segreti, le recriminazioni, le delusioni, i desideri. Albee è un maestro nel disegnare i rapporti di coppia, i tranelli del matrimonio, o forse dell’amore.
Poi la scena si sposta al parco. Peter ci va ogni domenica per leggere, e sceglie sempre la stessa panchina. Sceglierne un’ altra sarebbe uno scardinare i suoi schemi, un trauma nella sua vita tranquilla e metodica. Eppure, oggi tutto questo verrà stravolto per colpa di un ragazzo, Jerry, che annuncia:
Jerry
“Vengo dallo zoo”
Peter non ci fa caso, come non aveva fatto caso alle parole della moglie. Ma a poco a poco Jerry lo coinvolge in una narrazione tra l’assurdo e il fattibile, tra momenti di lucidità e follia. Peter si sente in trappola, vorrebbe andarsene ma è troppo educato per farlo. Rimane ad ascoltare le farneticazioni di Jerry, con un sorriso di condiscendenza, finché Jerry non reclama il diritto di avere la panchina tutta per sé.
A questo affronto Peter non può cedere. È la sua panchina! Se in vita sua non ha mai lottato per nulla, ora è tempo di farlo. Per la sua panchina, o quello che essa rappresenta, vale la pena anche di…
Bene la regia di Bruno Fornasari di questo spettacolo che riunisce due testi di Albee, “Home life” scritto nel 2004 e “The zoo story” nel 1959 . Fornasari fa tesoro del dialogo battente e brillante del drammaturgo americano, e non lascia vuoti, né lungaggini, né alcuna banalità. Mantiene il sarcasmo, l’amarezza, lo humour, portati avanti con spigliatezza e affiatamento dai due protagonisti della prima parte, “A casa” , Michele Radice nel ruolo di Peter, un marito che forse tutte vorrebbero avere, tranquillo, fidato, intelligente, elegante, e Valeria Perdonò in quello di Ann, più combattiva e inquieta. Li si guarda, li si ascolta, li si segue, insomma non li molliamo mai. Cosa succederà? Ci chiediamo, quando la tensione sale e le parole si fanno pesanti.
E poi nella seconda scena entra Jerry, Tommaso Amadio, l’allampanato allucinato ragazzo che ha bisogno di parlare con qualcuno. La solitudine della grande città, la follia serpeggiante, le maschere che cadono, le gabbie che si aprono per far evadere animali feroci, che fino ad allora avevamo pensato fossero solo degli innocui pappagallini…
Uno spettacolo divertente e crudele, che si gode per tutti i novanta minuti e poi alla fine pensiamo “ma quelli siamo noi. Ma quelli siamo noi?”
Daria D. Morelli Calasso