Sempre un vento di perseguita e costante bellezza nella sua verità, che è di chiara e onesta gioiosità d’amore, ciò che ci giunge dalla cara Juana Rosa Pita, tra i maggiori autori della poesia cubana, dalla prima giovinezza lontana dalla sua amata isola ed ora da molti anni residente a Boston. Una verità dicevamo che è nella tensione d’incontro dell’uomo e della donna con la terra, in una sacralità d’unione che ha appunto in questa spinta tutto il dialogo di una sacralità audacemente ed elegantemente riportata nei suoi simboli principe. Per questo forse l’amore per l’Italia, eletta a luogo d’elezione, ritorna così spesso nei suoi versi, come questi che in una notte a cavallo di un maggio che finisce ed un giugno che s’apre ci fa giungere via oceano.
Sono due testi, uno al momento ancora inedito (all’interno di un nuova pubblicazione a breve in uscita) ed un altro apparso in Arie etrusche (edito in Italia nel 1987 grazie alla traduzione di Pietro Civitareale) e dal significativo titolo “L’Italia in me”. Una poesia questa che se fin dall’inizio ha nel reclamo della penisola come patria dell’anima, “bella propiziatrice di viaggi/rosato paese dell’augurio” pure è nell’incisione (da un sogno che partendo da L’Avana l’ha poi seguita in tutti i suoi peregrinazioni) di un ombra che è quella di una partenza patita, di un’origine, di un nascere “che non si elegge/e comporta spogliamento e sottomissione/e persiste dolorosamente se lontana”. Così forse, anche per questo, il suolo italico ha la definizione di “zona franca del sole” nel suo temperare in un dialogo di luce quella tensione di tempo e anima che ha già negli occhi il suo primo nutrimento. Il rinascere nell’iscrizione “della rosa e del marmo”, nell’armonia di mare e magnolie fa sì allora che la pena sia lenita nel sorriso, nella facilità di uno smarrimento d’amore, che è l’amore dei suoi artisti, di quegli artisti tanto amati che nel testo inedito hanno nel richiamo i nomi di Masaccio e Botticelli ma soprattutto l’insegnamento, a proposito di costanza, di una scrittura che è sempre espressione di una richiesta e di una mancanza che ha nel costume dell’impegno il suo luogo, la sua casa:”La volubilità usa il linguaggio/avvincente della finzione,/ma la costanza esige/ di sostenere la lucentezza dello stile/e poi impara l’abc della verità”.
Un’indicazione questa che è per noi un invito a ricordare, e a ricordarci entro una quotidianità la cui vera arte è dapprima nella cura reciproca, senza smarrire allora tra le altre le chiavi di un restare, e di un esserci che ha nel talento del credo (seppure a volte incompreso, a volte anche violento) nel suo desiderio, la sua impronta più vera. Grazie Juana Rosa!
Gian Piero Stefanoni