LIDO DI VENEZIA, 29 AGOSTO – Il concorso inizia oggi con un grande film proprio dell’81° Festival Internazionale di Venezia, inaugurato ieri con il Leone d’Oro alla Carriera per Sigourney Weaver e un dimenticabile “Beetlejuice Beetlejuice” di Tim Burton, già prigioniero di uno stile rivolto al passato.
Il grande, appassionante film è “Maria”, una coproduzione italo-tedesca del cileno Pablo Larraín, evocazione degli ultimi tragici dieci giorni della vita del soprano Maria Callas, tra sogni di cantare ancora e ricordi del suo passato. Un film che sa preservare la leggenda e allo stesso tempo ampliare il mito del Divino.
Interpretata da un’Angelina Jolie che è riuscita a calarsi nel personaggio quasi offuscando la propria personalità, il film deve molto della sua grandezza alla sceneggiatura originale di Steven Knight, con cui Larraín aveva già lavorato per “Spencer” sulla vita di Lady D. Knight riesce a sintetizzare in frasi che mescolano poesia e ironia la profonda solitudine di una donna che sopravvive al suo passato.
“Maria” è il capitolo finale di una trilogia larrainiana che evoca la figura di tre donne (la stessa Callas, Jackie Kennedy e Lady Diana Spencer) che hanno segnato il XX secolo con vite che sono state cibo per la stampa scandalistica ma anche paradigma di una femminilità che sapeva muoversi tra i più alti poteri della politica, della regalità e dell’intrattenimento, creando della loro debolezza fisica un’arma di forza.
Questo è il più riuscito dei tre capitoli, grazie all’inventiva visiva del regista che combina perfettamente documentari e scene girate espressamente tra Parigi, Atene e Budapest (per gli interni) con l’aiuto di uno splendido direttore della fotografia come il veterano Ed Lachman, affiancato dallo stesso Larraín davanti a una telecamera onnisciente che sa muoversi tra i diversi ambiti e tempi in cui si sviluppa la trama.
Nel bilancio delle qualità del film conta anche il prodigio di manipolare l’immagine e il suono per preservare la prodigiosa voce cantata della Callas, assemblandola con la figura di Angelina Jolie che ha saputo imitare alla perfezione la dizione rimasta e scandita dai sospiri con cui Maria sapeva esprimere chiaramente le sue idee.
Il primo film con una produzione minoritaria in concorso è in spagnolo, “El jockey” dell’argentino Luis Ortega, che racconta in codice fantastico e a tratti surreale la storia di un fantino che, per sfuggire a una banda di criminali che lo hanno condannato a morte per aver perso una gara, diventa prima una donna e poi una bambina.
Figlio di un famoso cantante melodico argentino, Palito Ortega, che ha imperversato in tutta l’America Latina nella seconda metà del secolo scorso (e che il regista ricorda in quasi tutti i suoi quindici titoli, tra cortometraggi, lungometraggi e serie TV in 22 anni di carriera e 44 di vita, usando le sue canzoni come colonna sonora), Luis Ortega sorprende lo spettatore con un film difficile da prevedere nella trama, data l’ampia varietà di situazioni inaspettate su cui è ricamata una sceneggiatura scritta da lui stesso, Fabián Casas e Rodolfo Palacios. Quest’ultimo ha anche collaborato con Ortega nel film che lo ha portato alle soglie degli Oscar nel 2018 per “The Angel”.
Nahuel Pérez Biscayart, che si muove abilmente tra i suoi film nazionali e francesi, è straordinario in un ruolo difficile che richiede competenze mimiche e una ballerina che si esibisce con una facilità invidiabile, molto ben supportato dalla nostra Úrsula Corberó e dalla cilena Mariana Di Girolamo in polo attrazione femminile, mentre il messicano Daniel Giménez Cacho presta la sua autorità recitativa nei panni di un gangster innamorato del suo fantino, in questa coproduzione anche azteco-danese, prodotta ogni volta dal grande Guillermo del Toro, sempre più interessato a stimolare i valori degli altri che a coltivare i propri.
Antonio Maria Castaldo