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Festival di Venezia: i misteri della selezione

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LIDO DI VENEZIA, 31 AGOSTO – Ci sono giorni in cui il maggiore interrogativo di un festival è il criterio di selezione dei film che compongono il concorso. Questo è il caso, oggi, dei tre film della quarta giornata dell’81º Festival Internazionale del Cinema di Venezia che, pur mostrando disparità di valori, sembravano fuori luogo nel concorso principale che assegnerà i Leoni d’oro e d’argento della giuria ufficiale.
Non è che l’italiano “Campo di battaglia” di Gianni Amelio, che evoca l’ultimo anno della prima guerra mondiale in cui alla gioia finale dei vincitori si unì la tragica comparsa della cosiddetta influenza spagnola, che causò molte più vittime in tutto il mondo rispetto allo stesso conflitto in Europa, fosse spregevole, nonostante il suo ritmo lento e la narrazione frammentata.
Non lo era nemmeno il canadese “The Order” dell’australiano Justin Kurzel che, con ritmo frenetico, ricorda una rivolta dei suprematisti bianchi nel nord-ovest degli Stati Uniti nel lontano 1983 e i cui valori commerciali, insieme alla pura presenza fisica di Jude Law, sembravano più degni di una sezione informativa come “Orizzonti” che della competizione ufficiale.
Ancora meno spiegabile la selezione di “Leurs enfants après eux”, terzo lungometraggio dei fratelli gemelli francesi Ludovic e Zoran Boukherma, considerati la speranza del giovane cinema francese con i loro 26 anni, che segue le avventure di un adolescente in quattro estati successive tra il 1992 e il 1996, che scopre il sesso, i primi amori e lavori e entra nell’età adulta senza le illusioni vissute negli anni precedenti.
Amelio, con i suoi 79 anni e i suoi 21 lungometraggi, è uno dei più autorevoli rappresentanti di quella generazione che ha assunto con onore il difficile compito di seguire le orme dei grandi cineasti italiani del secondo dopoguerra, come Visconti, Fellini, Monicelli, Scola, ecc.
Ispirato al libro di Carlo Patriarca “La sfida”, adattato dallo stesso regista e da Alberto Taraglio, il film si divide in due parti ben precise, con due protagonisti maschili diversi, due medici militari di personalità opposte: uno di famiglia dell’alta borghesia (Gabriel Montesi), ossessionato dal scoprire le automutilazioni che i soldati si infliggono per non tornare al fronte, e l’altro (Alessandro Borghi) di umile estrazione che cerca di curarli per salvare le loro vite.
La seconda parte è invece dedicata alla comparsa dei primi sintomi della fatale influenza spagnola e ai futili tentativi del secondo medico di trovare rapidamente un vaccino per la malattia.
Frammentata la prima parte in vignette che descrivono gli stratagemmi escogitati dai soldati per poter tornare salvi (anche se non sani) a casa, la seconda si perde in una visione d’insieme con un ritmo lento che accentua la teatralità narrativa.
Justin Kurzel è stato considerato uno dei migliori scenografi teatrali australiani fino a quando, nel 2005, ha deciso di passare al cinema prima come cortometraggista e poi come produttore e regista nel suo paese fino a questo evidente film su commissione, “The Order”, che permette a Jude Law un’interpretazione puramente fisica come l’agente dell’FBI incaricato di scoprire una banda di suprematisti bianchi che tentano, attraverso furti e attentati, di sovvertire l’ordine costituzionale.
Film di eccellente fattura professionale, “The Order” non sembra possedere tutte le carte in regola per competere con autori della statura di Pedro Almodóvar, Pablo Larraín, Walter Salles o Todd Phillips, loro sì degni aspiranti al Leone d’oro.
E che dire di questi fratelli gemelli che si ispirano a un romanzo, premiato con il Goncourt 2018 e scritto da Nicolas Mathieu, che pretende di essere una radiografia di una gioventù di provincia alla fine del secolo scorso, ma che perde la sua attualità essendo ambientato in un periodo relativamente remoto dell’epoca attuale e senza ancorarsi a un momento significativo della storia francese.
Così le turbolenze amorose del giovane Anthony, dai 14 ai 18 anni, interpretato da un monocorde Paul Kircher, mancano di interesse per lo spettatore in generale, aggravate da una durata eccessiva di quasi due ore e mezza.
Antonio M. Castaldo

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