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Festival di Venezia: pioggia, vento e poco merito nella nona giornata

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LIDO DI VENEZIA, 5 SETTEMBRE – La nona giornata dell’81° Festival Internazionale del Cinema di Venezia è stata soprattutto un’occasione per seguire le tracce di giovani registi alla loro seconda o terza opera e vedere se hanno mantenuto le promesse suscitate dai loro film precedenti.
Non è questo il caso di “April”, secondo lungometraggio di finzione della georgiana Dea Kulumbegashvili, che racconta una storia frammentata di un’ostetrica che, durante un parto, provoca involontariamente la morte di un neonato.
E ancor meno di “Iddu” degli italiani Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che evoca i 30 incredibili anni di latitanza di un potente mafioso che ha goduto della copertura delle più alte sfere politiche, poliziesche, giudiziarie e della stessa cittadinanza.
Il film più salvabile di questa giornata senza sole, con pioggia e quasi senza merito, è stato il primo film di Singapore in concorso al Lido: “Mo shi lu” (Stranger Eyes) di Siew-Hua Yeo, sulla onnipresenza delle videocamere nella vita quotidiana delle grandi città, che risolvono crimini ma violano la privacy.
Partendo dal meglio, ricordiamo che Yeo si era fatto notare con il suo secondo lungometraggio, “A Land Imagined”, che vinse il Leopardo d’Oro nel 2018, mentre questo suo quarto film racconta la storia di un giovane padre che, dopo la scomparsa della figlia di pochi mesi e di fronte all’inefficacia della polizia, decide di scoprire da solo il colpevole, ma nella sua ricerca troverà soprattutto se stesso.
Interpretato da una star del cinema asiatico, Wu Chen-Ho, e dall’indimenticabile attore feticcio di Tsai Ming-Liang, Wu Chien-ho, il film smette gradualmente di interessarsi al clima poliziesco iniziale per concentrarsi sulla denuncia di una società sempre più controllata dalla polizia, attraverso una moltitudine di videocamere sparse ovunque, con la collaborazione degli stessi cittadini che spiano i loro vicini grazie a cellulari sempre più potenti e sofisticati.
La georgiana Dea Kulumbegashvili è salita rapidamente alla ribalta nel 2020 quando il suo film d’esordio, “Desatskisi” (Beginning), vinse al festival di San Sebastián non solo la Concha d’Oro per il miglior film, ma anche i premi d’argento per la miglior regia e la miglior attrice per Sukhitashvilli e il premio della giuria per la miglior sceneggiatura originale.
La stessa Sukhitashvilli è la protagonista del film nel ruolo di un’ostetrica, accusata di aver causato la morte di un neonato per non aver praticato un cesareo. Già criticata dalle autorità per la sua attività, totalmente illegale, di praticare aborti su donne che non possono permettersi di viaggiare all’estero, l’ostetrica sarà licenziata dal lavoro, anche dopo aver dimostrato la sua innocenza.
La regista esaspera gli stilemi del suo film d’esordio, accumulando sequenze inutili e scene inutilmente prolungate o di strano tono simbolico, che appesantiscono la già esagerata durata di due ore e un quarto, diluendo così la sua pretesa critica all’intolleranza religiosa e alla violenza patriarcale ancora imperanti nel suo paese.
L’Italia ha una lunga storia di film che descrivono e denunciano la mafia come causa del ritardo che la Sicilia soffre rispetto alle altre regioni europee, con capolavori come quelli firmati da Francesco Rosi, ma “Iddu” si iscrive più che altro in quel genere più convenzionale che è il “cinema di mafia”.
Scritto dagli stessi registi, che avevano già diretto un film encomiabile come “Sicilian Ghost Story”, sulla storia del figlio di un collaboratore di giustizia che fu rapito, tenuto prigioniero per due anni e poi sciolto nell’acido per convincere il padre a desistere dal denunciare la criminalità organizzata, il film rievoca quella clandestinità permessa del super boss di “Cosa Nostra”, Matteo Messina Denaro, che fu arrestato solo quando era già all’ultimo stadio di un cancro terminale che lo avrebbe portato alla tomba pochi mesi dopo.
Interpretato da due dei principali attori italiani, Elio Germano nel ruolo di Messina e Toni Servillo nel ruolo di un ex mafioso collaboratore di giustizia, il film soffre di dialoghi letterari e ridondanti e di un ritmo troppo lento che ne diminuiscono l’interesse, anche all’interno del sottogenere a cui pretende appartenere.
Antonio  M. Castaldo

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