Corriere dello Spettacolo

XXIV Festival Verdi: “Macbeth” nella versione francese del 1865

 

Avviare e consolidare un Festival dedicato a Verdi è un impegno anche per una città ricca e brillante come Parma, ma la determinazione con cui è stato affrontato l’impegno sta dando ampiamente i frutti. Si è visto particolarmente in questa edizione, ricca nella proposta di titoli e compagini artistiche chiamate a operare. Che siano del Maestro titoli operistici giovanili, degli anni di galera o della maturità, mettere in cantiere tre titoli l’anno impone spesso di fare di necessità virtù e anche questo Macbeth, nella versione francese del 1865 (di fatto un grand-opéra), non s’impone per un allestimento sfarzoso o sul lusso esibizionistico, ma riposa sulle idee di un Pierre Audi sicuramente ispirate. Quanto meno per i primi due dei quattro atti di cui è strutturato uno dei massimi capolavori del bussetano che rappresenta il primo incontro di Verdi con Shakespeare, drammaturgo conosciuto quanto amato, cui il compositore avrebbe guardato per i due capolavori della maturità: Otello, 1887 e Falstaff del 1893. L’incontro con Macbeth risale a molto tempo prima, ai cosiddetti anni di galera: quel decennio circa, in cui Verdi era impegnato nell’accrescere la fama, letteralmente esplosa, dopo gli insuccessi giovanili, con la leggendaria prima di Nabucco (Milano 1842), consolidata con I Lombardi alla Prima Crociata del 1843 ed Ernani (Venezia 1844). Periodo che finirà nel 1851 quando, in poco meno di due anni, andrà in scena la cosiddetta “trilogia popolare”: Rigoletto e La Traviata (Venezia 1851 e 1853), Il Trovatore (Roma 1853). Macbeth ebbe la prima rappresentazione a Firenze, Teatro della Pergola nel 1847 ma in seguito revisionato per Parigi, 1865. Già la prima stesura recava tratti insoliti e originalissimi che rompevano con la routine e la convenzionalità di cui lo stesso Verdi aveva sofferto per sottostare alle molteplici commissioni che fioccavano. Facile immaginare lo sconcerto che colse il pubblico fiorentino a fronte di una composizione dove al fascinoso timbro del tenore era affidata una parte marginale, e l’opera era completamente priva del conflitto sentimentale tipico del melodramma italiano, a favore, invece, di un sofisticato dramma di coscienza e psicologia del potere. La dimensione visionaria – che emerge fin dalla grande scena delle apparizioni e poi nell’altra, non meno geniale, del sonnambulismo della Lady – è costantemente alimentata dagli interventi delle streghe (un coro femminile a tre voci, che lo stesso Verdi definì ”terzo protagonista”) contraddistinti da una grottesca scrittura musicale, spesso solo parlata o sussurrata. Infine, rispetto a Shakespeare, dove il popolo ha un ruolo irrilevante, Verdi inserisce una suggestiva quanto accorata scena corale, lontana dall’esuberanza patriottica dei precedenti lavori. Il Festival Verdi quest’anno s’ispirava al potere e alla politica: due concetti strettamente intrecciati che, ieri come oggi, caratterizzano le dinamiche della società umana. Il regista Pierre Audi si può permettere di trasportare la vicenda dal medioevo a un attuale sistema autoritario dove il potere è spesso concentrato nelle mani di pochi, e la politica diventa strumento di controllo più che di dialogo. Controllo esplicitato da grande botola in cui crimini e misfatti possono compiersi davanti alla riproduzione fotografica della sala del teatro, nel momento stesso in cui si assiste alla rappresentazione. Duplicato il sipario e proscenio che assume funzione di spazio privato, per architettare intrighi di conquista del potere. Meno efficace la realizzazione della seconda parte dove strutture, tanto austere quanto povere, faranno da contenitore “sociale” e “campo di battaglia” sino alla drammatica conclusione dell’opera. Ottimo cast a disposizione del Maestro Roberto Abbado, facilmente allineatosi all’impostazione registica, privilegiando momenti intimi all’enfasi che è normalmente riservata ai balletti e ai pezzi d’assieme, quali il finale primo e la grande scena delle apparizioni. La concertazione, invero dettagliata senza arrivare a un’entomologa analiticità, pur essendo elegante, lasciava scarsamente valorizzato il contenuto di novità della scrittura musicale, talvolta soffocato o quantomeno poco esaltato. Il solido quartetto dei cantanti, che presentava due voci di grande volume, il baritono e il soprano e una molto proiettata e squillante del tenore, si sono giovati di queste prudenti dinamiche direttoriali. La voce del basso, come peso vocale, risultava più leggera, ma la resa complessiva, assicurata per una sola recita da Riccardo Fassi, era impeccabile in ogni registro. Macbeth era il giovane salernitano Ernesto Petti (cui auspichiamo sia scritturato dai big della bacchetta per migliorare stile e fraseggio) è dotato di un timbro molto accattivante, buone mezze voci e rispettabile intonazione. Lady Macbeth era Lidia Fridman, cantante salita all’onore delle cronache per aver affrontato con Riccardo Muti  Norma e Un ballo in maschera, è riuscita in questo difficile cimento verdiano a ricevere unanimi consensi dal competente pubblico parmense. È voce molto interessante, soprattutto in un ruolo dove l’innata espressività demoniaca può trovare terreno fertile. Anche lei potente e musicalmente ferrata, sale con facilità al registro acuto; nella coloratura ha capacità di assottigliare il suono anche quando affronta con grande sicurezza note staccate o scoperte. Deve però fare i conti con una voce avara di colori e un fraseggio che non si può dire brilli in fantasia, essendo alla lunga convenzionale. Il tenore Luciano Ganci è dotato di una voce chiara che “corre” in teatro come se avesse sempre il vento in poppa: Macduff è però ruolo relativamente facile in acuto (non si va oltre al La naturale) e certe disuguaglianze che si riscontrano nei passaggi al grave o quando tenta un canto più chiaroscurato, saranno verificate in occasione di cimenti più impegnativi. In definitiva una buona edizione che si è giovata di un’orchestra e di un coro di valore.

gF. Previtali Rosti

ph Roberto Ricci
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