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L’UMAMI DELLA VITA IN DURIAN SUKEGAWA. Recensione al romanzo I gatti di Shinjuku, di Durian Sukegawa

Data:

 

Autore: Durian Sukegawa Casa editrice: Einaudi Collana: Super ET
Titolo: I gatti di Shinjuku Traduzione: Laura Testaverde Lingua orig.: giapponese
Anno uscita: 2019 Edizioni italiane: 2023, 2024
Prezzo: 12 euro Pagine: 192 Valutazione: ⭐​⭐​⭐

 

È uscito presso Einaudi I gatti di Shinjuku, nuovo romanzo dell’eclettico autore giapponese Durian Sukegawa, già noto in Italia per Le ricette della signora Tokue (Einaudi, 2018) e Il sogno di Ryosuke (Einaudi, 2022).

Autore eclettico, anzi no: poliedrico. Termine che meglio inquadra la dimensione unitaria di uno scrittore dalle molte anime. Sì, perché Sukegawa non si limita ad essere romanziere: è anche un poeta, un laureato in Filosofia Orientale, un clown ed un esperto in pasticceria, con tanto di laurea presso l’Università della Pasticceria del Giappone.

Un uomo poliedrico, perché tutte le sue specializzazioni, in apparenza poco coese – cosa lega la pasticceria alla filosofia? – nascondono in realtà un comune denominatore, ovvero la scelta di radicarsi in ciò che conferisce sapore all’esistenza. È la sapidità – o per dirla in giapponese, è l’ormai ben sdoganato umami – il fil rouge che unisce il mestiere del pensare a quello del poetare, l’arte culinaria alla risata buffonesca. Arti capaci di orientare l’esistenza perché in grado di donarle gusto. Allo stesso tempo, arti poco adatte a far sentire integrato nella società chi le pratica.

La ricerca dell’umami ben si presta a descrivere l’essenza dei romanzi di Sukegawa, incentrati su percorsi di formazione, redenzione e cambiamento esistenziale, ed in cui, tra l’altro, è sempre presente il tema culinario. Il cibo, insieme alla scrittura, è quell’orientamento che spinge i personaggi alla realizzazione autentica, che spesso non collima con le aspettative del mondo. Gli atti stessi di cucinare e assaporare sono salvifici: gli ultimi riti capaci di suscitare – forse più nella cultura orientale che da noi – un’atmosfera di umile sacralità. Non è dunque un caso che nei Gatti di Shinjuku – come già era stato nelle Ricette della signora Tokue – l’ambiente centrale sia un locale: luogo dove, oltre agli immancabili alcolici, si servono anche ottime pietanze. È qui che si raduna un’umanità dispersa e spesso disperata, in fuga dal passato e dal presente, che a forza di mangiare insieme inizierà a riconoscersi “famiglia”.

Anche molti autori occidentali hanno fatto del rapporto tra personaggi e cibo un importante fulcro simbolico dei propri romanzi. Citando qualche nome alla rinfusa, viene in mente Karen Blixen, con Il pranzo di Babette, dove la consumazione del superbo pranzo alla francese – lungi dall’essere una concessione al peccato di gola – diviene immagine di una vita risanata dalla Grazia, la quale è capace di scrivere dritto sulle storte righe dell’esistenza di ciascuno; viene in mente Hemingway, con quel suo ossessivo insistere sulla preparazione di cocktail e pietanze, quasi a sottolineare il virile legame tra Uomo e Natura, basato sul tentativo di dominarsi a vicenda; viene in mente Tabucchi, e su tutti Sostiene Pereira, dove il protagonista mangia e beve in modo insalubre, sintomo del malessere esistenziale in cui ristagna. Ma in tutti questi casi il cibo resta un’estensione dei personaggi, una proiezione della loro psicologia ed etica. In Sukegawa invece il cibo è uno strumento per trovare se stessi, che induce il cambiamento. I suoi personaggi sono spesso individui alla deriva, che si dibattono in una condizione di precarietà esistenziale e desiderio di realizzazione. Uomini alla ricerca del proprio posto nel mondo, in bilico fra integrazione e disappartenenza. È proprio dallo scontro fra il voler-essere del singolo e il dover-essere imposto dalla società che nascono quelle strategie di adattamento che sono il problema capitale dei personaggi di Sukegawa.

I gatti di Shinjuku è un romanzo di formazione ambientato negli anni ’90 a Shinjuku, quartiere tra i più trafficati fra quelli che compongono l’area metropolitana di Tokyo: vero cuore pulsante del traffico commerciale giapponese e sede di importanti organi amministrativi della megalopoli. Un quartiere – a fronte della sua altissima densità abitativa – assai piccolo: poco più di 18 Km2 e ripartito in aree minori che ne settorializzano le attività e la vita. Una di queste aree è Kabukichō, il celebre sobborgo a luci rosse di Shinjuku, luogo in cui “non si dorme mai”. Qui, a notte, le strade trionfano di insegne luminose: sono i richiami di decine e decine di love hotel che costituiscono l’anima della zona. Nei pressi di Kabukichō c’è un posticino chiamato Goldengai: un’area piccolissima, che contiene centinaia di bar dalle dimensioni spesso microscopiche e dove le persone corrono dopo il lavoro ad annegare nell’alcol il ricordo della giornata. Sarà proprio in uno di questi bar minuscoli, poco fuori dal Goldengai, che Yama – protagonista e narratore del romanzo – vivrà l’esperienza più determinante della sua vita.

Il giovane Yama sta sperimentando il primo e traumatico scontro con la società reale. Ancora fresco di laurea, scopre che il settore radiotelevisivo e cinematografico per il quale si era preparato nei lunghi anni di studio universitario non accetta persone daltoniche come lui. Gettato in uno stato di completa indeterminatezza esistenziale, ridotto a sopravvivere alla meno peggio tra ripetizioni ed altri lavoretti, per un colpo del destino il giovane riesce ad entrare comunque come apprendista in un’agenzia, che lo impiegherà nella produzione di notiziari e quiz televisivi. Ma anche quello che sembra essere un successo si rivela l’inizio di un incubo: costretto a lavorare a cottimo, obbligato a ritmi di lavoro sempre più insostenibili e bistrattato regolarmente dal suo mentore, ben presto Yama sente la vena creativa inaridirsi, così come le possibilità di realizzazione professionale. Dopo l’ennesima umiliazione – quando cioè i produttori di un quiz scartano con insofferenza quarantanove dei cinquanta quesiti da lui scritti durante una notte insonne di lavoro – Yama ha un tracollo. Girovagando sconsolato per Goldengai in cerca di un bar dove annegare il suo spaesamento, finisce in un locale sconosciuto, che lo attrae per il nome russo dell’insegna: il “Kalinka”. In questo bar – così piccolo che per farlo passare i clienti al bancone devono alzarsi in piedi – conosce Yume (che in giapponese significa “sogno”): è la giovane barista e cuoca del locale, che con il suo strabismo, i suoi modi misteriosi e le sue dolci stranezze innescherà nel protagonista un lento processo di trasformazione. Ma a fare la differenza rispetto a tutti gli altri locali di Shinjuku sono soprattutto i gatti: la finestra del bar è frequentata dalla numerosa tribù felina del quartiere, tanto che i clienti hanno preso l’abitudine di scommettere su quale gatto apparirà sul davanzale. A corredo del gioco, fa bella mostra di sé nel piccolo bar un disegno realizzato da Yume: è «il ritratto di famiglia dei gatti» in stile manga, dove tutti i felini del quartiere sono rappresentati e descritti. Questo semplice passatempo sarà per Yama una vera rivelazione, quasi il codice di un linguaggio segreto, che lo porterà a diventare affiatato membro della piccola comunità del Kalinka, composta da Isao, il proprietario alcolizzato del locale, la misteriosa Yume, ottima cuoca di yakitori e peperoni grigliati, “Nido di passeri”, così chiamato per la sua scarruffata capigliatura bionda, “Getarock”, membro di una band giapponese ed “Acciaio”, dal possente fisico. E fra gli altri avventori troverà anche “Melograno”, il prof. Uovo con la maliziosa compagna Natasha, “Baffi a Fuji”, il suonatore Rā, Regista e Grinta.

Silenziosa sacerdotessa di questi incontri umani e felini è Yume, depositaria del nome di tutti i gatti di Shinjuku, autrice del ritratto di famiglia e custode di un segreto che la lega a doppio filo con la comunità dei gatti del quartiere. Ed è proprio attraverso il crescente interesse per questa figura che Yama arriverà – nel bene e nel male – a capire la propria autentica vocazione e a sperimentare la malinconia di un inafferrabile amore.

Dietro l’atmosfera poetica e introspettiva della trama – più orientata alla contemplazione che all’azione – Sukegawa dipinge il quadro di un mondo crudele, dominato da logiche alienanti e impersonali, dove anche chi ha successo, in fondo, è una vittima. Il mondo televisivo, con le sue logiche di ascolto, mirano a raggiungere il più vasto numero di spettatori possibile; ma Yama non è fatto per scrivere parole destinate alla massa: egli vorrebbe – anche se non da subito gli è chiaro – che le sue parole fossero destinate a singoli individui, affinché diventassero dialogo, spazio di incontro autentico e personale. Questa aspirazione, però, lo rende inadatto alla mansione di autore televisivo e lo condanna ad una umiliante marginalità.

La solitudine del protagonista è radicale, come del resto lo è quella di tutti i personaggi del romanzo. Ma per Yama la salvezza arriva inaspettata, e consiste nell’apparizione dei gatti alla finestra del Kalinka. Un’apparizione che forse potrà sembrare un evento da poco; ma che invece assume per Yama il senso di una vera epifania, la cui importanza sentimentale trascende di gran lunga l’esilità – e forse la banalità – del mero fenomeno. E questo non tanto per l’importanza che i gatti rivestono nel folklore e nella cultura giapponese, quanto per un dato più sottilmente esistenziale: a conquistare Yama è il rendersi conto che i felini sono una grande famiglia. La “famiglia dei gatti”, allora, non è altro che l’immagine simbolica dietro alla quale si nascondono gli stessi avventori del locale ed il loro desiderio di sentirsi parte di una comunità. È questo, in fondo, il nodo centrale del romanzo, che mette in scena il bisogno di mettere radici, di trovare un posto da chiamare casa per assaporare l’umami della vita. E se i gatti sono la causa scatenante di questo processo di affezione, non bisogna dimenticare che il Kalinka – luogo in cui si mangia e si beve insieme, in cui ci si incontra ogni sera e si parla – è forse l’immagine più simile a quella del desco familiare. È per questo che Yama rimarrà per sempre fedele al Kalinka, cambiando a poco a poco l’intera traiettoria della sua esistenza attraverso l’assidua frequentazione.

Chi comprasse questo romanzo attratto dal titolo, immaginando una centralità della presenza felina nella storia, forse resterebbe deluso. I gatti ci sono, è ovvio, ma sono poco più che comparse; la loro importanza non sta nelle azioni che compiono – che, in fin dei conti, sono poche e ripetitive – ma nel modo in cui sono vissuti dagli umani che li osservano: dal valore che i personaggi danno al loro discreto esserci. La funzione narrativa dei felini è dunque quella di essere, al contempo, oggetti simbolici e catalizzatori involontari di mutamenti psicologici; ma anche di permettere alle differenti visioni del mondo vissute dai personaggi di rivelarsi al lettore. Non si tratta quindi di una storia che ha i felini per protagonisti, e nemmeno di un romanzo sullo stile di Io sono un gatto di Sōseki, in cui il lettore sposa il punto di vista animale per giungere alla straniante verità sul comportamento umano. Si tratta piuttosto di una storia in cui gli animali diventano, per i personaggi, lo specchio dei loro perduti affetti e dei loro inconfessabili desideri. I gatti di Shinjuku mette dunque in scena il teatro dei sentimenti più intimi e sottili: la ricerca di un umami esistenziale capace di dare senso alla vita, la faticosa accettazione di quelle imperfezioni che condannano gli individui alla diversità e la dolente nostalgia per le persone che si sono amate, ma che il destino ha fatto perdere per sempre.

Chi volesse trovare un limite al romanzo non lo troverebbe tanto sul piano letterario, quanto sulla scelta di Sukegawa di strizzare l’occhio a quella che è, a tutti gli effetti, la mania nipponica del secolo: la nekomania (neko significa “gatto”). I felini ormai quasi assurgono a simbolo del Giappone: sono presenti ovunque, sia in carne ed ossa che nella loro versione benaugurante di maneki neko. I gatti sono la chiave del successo, di un business fondato sulla tenerezza da due soldi e capace di trainare vendite di souvenir e… libri. Sì perché, nel panorama narrativo degli ultimi anni – lasciando ovviamente fuori il succitato Io sono un gatto di Sōseki, che è del lontano 1905 – non si contano i romanzi che hanno già nel titolo la parola “gatto”. Solo per citarne quelli tradotti in italiano dal 2020 ad oggi: Abbandonare un gatto, di Murakami Haruki; Se i gatti scomparissero dal mondo, di Kawamura Genki; Cronache di un gatto viaggiatore, di Hiro Arikawa; Un gatto per i giorni difficili, di Ishida Syou; La locanda dei gatti in affitto, di Yuta Takahashi; Gatti in affitto, di Shigematsu Kiyoshi. Una proliferazione che sarà accolta senz’altro volentieri da tutti gli amanti del mondo felino, ma che certo rischia, continuando così, di mutarsi in vuoto cliché, o peggio, in mera trovata di marketing.

Luigi Ferri

isoipse.cds@gmail.com

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